Il moltissimo che si deve alla Bauhaus

A Ivrea, nella fabbrica dell’Olivetti, i valori ai quali si ispirava il Bauhaus hanno ritrovato una nuova vita

Il primo esperimento di democrazia in Germania

La Repubblica di Weimar fu il primo esperimento di democrazia in Germania. Di solito, si pensa a tale epoca come a un periodo transitorio che separò tra loro due guerre mondiali. In realtà, la Repubblica di Weimar e la sua costituzione gettarono le basi giuridiche della Germania democratica. La Repubblica di Weimar fu proclamata in seguito alla sconfitta dell’Impero tedesco alla fine della prima guerra mondiale.

La storia racconta che, negli ultimi giorni di ottobre dell’anno 1918, durante i negoziati di pace tra Stati Uniti e Germania, i marinai del porto di Kiel ricevettero l’ordine di salpare. I motivi per i quali venne dato l’ordine furono oggetto di preoccupazione e di angoscia tra i membri della flotta: alcuni credettero che la flotta dovesse salpare per combattere un’ultima e disperata battaglia contro le navi britanniche, altri che il vero scopo della missione fosse quello di autoaffondare la flotta in ossequio a una concezione insensata del codice di onore militare, altri ancora che gli alti gradi militari volessero porre fine in tal modo ai negoziati di pace con gli Stati Uniti per riprendere la guerra. I marinai non assecondarono questi propositi.

Il 29 ottobre 1918 si ammutinarono nel porto di Kiel, avviando la rivoluzione che avrebbe finito per liquidare la Germania imperiale. I marinai s’incontrarono con alcuni rappresentanti del governo in carica, guidato dal principe Maximilian di Baden, di idee liberali, nominato Cancelliere il 3 ottobre 1918: si trattava di un governo di coalizione del quale facevano parte pure i socialdemocratici e che aveva come compito quello di trattare una resa onorevole con gli Stati Uniti.

Per negoziare con la delegazione governativa, i marinai ammutinati crearono un’istituzione che divenne il perno fondamentale della rivoluzione tedesca: il consiglio. Strutturato sul modello del soviet della rivoluzione russa, il consiglio fu l’organizzazione politica dei burrascosi inizi della repubblica: di norma, i consigli erano eletti in occasione di grandi assemblee di operai in sciopero, di soldati ribelli, di artisti intenzionati a fare un certo uso di una galleria o di un teatro. Dopo l’elezione, i delegati andavano a negoziare, a seconda dei casi, con le forze dell’ordine, i padroni, i capi, i direttori di teatri, le autorità cittadine, gli ufficiali dell’esercito, e ritornavano a riferire all’assemblea. Il loro mandato di delegati poteva essere revocato senza tante formalità da chi li aveva eletti magari qualche giorno prima, se non, addirittura, poche ore prima; e potevano poi essere rieletti poco dopo per acclamazione.

Da Kiel la rivoluzione si propagò per tutto il territorio della Germania; ovunque si formarono assemblee e furono eletti consigli di soldati e di operai: il popolo tedesco, sfibrato da anni di guerra, voleva la pace e la chiedeva a gran voce. Poiché gli Stati Uniti, per giungere a un trattato di pace con la Germania, pretendevano l’abdicazione del Kaiser, il principe Maximilian di Baden fece presente a Guglielmo II tale necessità affinché la situazione sociale della rivolta non sfuggisse completamente di mano alle autorità.

Il 9 novembre 1918 gli eventi precipitarono: il principe Maximilian di Baden, con un atto dal discutibile fondamento costituzionale, cedette i poteri di governo al socialdemocratico Friedrich Ebert; poco dopo giunse la notizia dell’abdicazione del Kaiser, il quale fuggì profugo in Olanda; quindi il segretario della SPD (il partito socialdemocratico di Germania, la socialdemocrazia tedesca), Philipp Scheidemann, senza averne ricevuto mandato e privo di poteri al riguardo, proclamò dalla gradinata del Reichstag la Repubblica, mentre l’applauso di migliaia di voci salutava con giubilo la proclamazione (così si esprime Erich Eyck, autore di un’importante Storia della Repubblica di Weimar).

La repubblica tedesca, dunque, nacque in seguito a una proclamazione rivoluzionaria. Trovò poi una base giuridica l’11 agosto 1919, quando il Presidente Ebert firmò la nuova costituzione, approvata dall’Assemblea Nazionale nella città di Weimar, il luogo simbolo della cultura tedesca, dove vissero, composero e crearono le loro opere personaggi come Goethe e Schiller.

Gli anni d’oro della Repubblica di Weimar

Quando si pensa all’epoca della Repubblica di Weimar, vengono alla mente immagini sfuocate in bianco e nero di persone in divisa militare che marciano e si scontrano tra loro: sono le immagini del caos, della miseria post-bellica, della Grande Inflazione che sconvolse le vite di milioni di tedeschi. Ma la Repubblica di Weimar conobbe anche la propria epoca di splendore: sotto la guida vigile e attenta di Gustav Stresemann, prima Cancelliere del Reich e poi ministro degli Esteri, vi fu una sorta di resurrezione non solo materiale ed economica, ma anche spirituale e culturale del popolo tedesco. Furono i cosiddetti “anni d’oro della Repubblica di Weimar” (la fase temporale che va dal 1924 al 1928): durante questo periodo storico vi fu un rigoglio di manifestazioni culturali in ogni campo e ambito della creatività umana (architettura, letteratura, poesia, teatro, filosofia, cinematografia). Berlino divenne una città cosmopolita, un centro di attrazione a livello europeo, un luogo in cui la libertà di espressione si coniugava con la libertà dei costumi.

Thomas Mann scrisse La montagna incantata (Der Zauberberg, 1924), opera che ebbe immediato successo: si tratta del romanzo “parlamentare” del grande scrittore tedesco, il lavoro che segna, dopo le invettive tardo-romantiche delle Considerazioni di un impolitico, la sua conversione alla democrazia (egli si definiva un Vernuftrepublikaner, un “repubblicano per impulso di ragione”).

Mentre Berthold Brecht procedeva alla stesura dell’Opera da tre soldi(1928), la cui rappresentazione era destinata a diventare il maggiore successo teatrale dell’epoca, Fritz Lang girava Metropolis (1927), un film cult della cinematografia mondiale, i cui echi risuoneranno, decenni dopo e in un’epoca storica completamente diversa, mutata, in un altro capolavoro della settima arte, vale a dire Blade Runner di Ridley Scott.

Ma anche gli oppositori della Repubblica di Weimar trovarono la propria via di espressione artistico-culturale: tra gli intellettuali che aderirono alla Konservative Revolution (la “rivoluzione conservatrice tedesca”, il movimento di contrasto e critica delle idee democratiche e repubblicane, nel quale, all’opposizione verso la situazione politica dell’epoca, si affiancava la nostalgia per i “veri” valori della Germania e della tradizione tedesca) e si nutrirono della sua atmosfera spirituale, troviamo il giurista Carl Schmitt, teorico della teologia politica e della dicotomia amico-nemico, lo scrittore Ernst Jünger, creatore della figura dell’“Anarca” (l’anarchico di destra) e del Ribelle, il filosofo Martin Heidegger, voce della Germania profonda, della Foresta Nera, della provincia tradizionale che si contrappone alla Berlino capitale del mondo.

Il Bauhaus-Archiv è un museo di design di Berlino, che raccoglie documenti, articoli e progetti relativi alla Bauhaus. Si trova nel quartiere Tiergarten lungo il Landwehrkanal.

Scultura, pittura, arte applicata e artigianato

Una delle manifestazioni artistiche più intimamente legate allo spirito della Repubblica di Weimar fu sicuramente il movimento del Bauhaus (o della Bauhaus, come dicono altri, visto che il termine tedesco staatliches Bauhaus, essendo neutro, lascia aperte, nella lingua italiana, entrambe le possibilità). Il Bauhaus fu una scuola d’arte sorta nel 1919 per iniziativa dell’architetto Walter Gropius, la quale operò a Weimar dal 1919 al 1925, a Dessau dal 1925 al 1932 e a Berlino dal 1932 al 1933, quando fu chiusa dalla Gestapo perché foriera di valori invisi al nazionalsocialismo.

Come Gropius afferma nel Manifesto e programma del Bauhaus statale di Weimar (aprile 1919), il movimento “si propone di raccogliere in un’unità ogni forma di creazione artistica, di riunificare in una nuova architettura, come sue parti inscindibili, tutte le discipline pratico-artistiche: scultura, pittura, arte applicata e artigianato. Il fine ultimo, anche se remoto, del Bauhaus, è l’opera d’arte unitaria — la grande architettura –, in cui non c’è una linea di demarcazione tra l’arte monumentale e l’arte decorativa”. L’incipit del Manifesto del Bauhaus è ancora più chiaro. Con toni enfatici e trionfalistici, Gropius proclama che “il fine ultimo di ogni attività figurativa è l’architettura! Decorare gli edifici era un tempo il compito più eccelso delle arti figurative, le quali erano componenti inscindibili della grande architettura. […] Architetti, pittori e scultori devono di nuovo imparare a conoscere e a capire la complessa forma dell’architettura nella sua totalità e nelle sue parti, dopo di che potranno restituire alle loro opere quello spirito architettonico che hanno perduto nell’arte da salotto”.

Poi, quasi idealmente ricollegandosi al nuovo corso degli eventi e alla nascente democrazia, così egli conclude: “Formiamo dunque una nuova corporazione di artigiani, senza però quell’arroganza di classe che vorrebbe erigere un muro di alterigia tra artigiani e artisti! Impegniamo insieme la nostra volontà, la nostra inventiva, la nostra creatività nella nuova attività edilizia del futuro, la quale sarà tutto in una sola forma: architettura e scultura e pittura, e da milioni di mani di artigiani si innalzerà verso il cielo come un simbolo cristallino di una nuova fede che sta sorgendo”.

Nel 1925 il Bauhaus, tra i cui maestri, oltre a Walter Gropius, si annoverano personaggi come Paul Klee e Wassily Kandisky, si trasferì da Weimar a Dessau, dove venne costruito il celebre palazzo che costituì la nuova sede della scuola. L’architettura della costruzione è lineare, di stampo razionalistico e funzionale. Non è un’architettura elitaria, bensì essenziale e scevra di elementi decorativi: tuttavia la sua semplicità rappresenta un’apertura verso il mondo, la sua eleganza si coniuga con la fruibilità da parte di chiunque, la luminosità è atto di speranza verso il futuro. È un’architettura democratica o, meglio, socialdemocratica; essa guarda alla vita del popolo, alla comunità dei lavoratori: si tratta di una bellezza alla portata di tutti. Già nel 1910 Gropius aveva scritto: “un’immagine appropriata invita a trarre le dovute conclusioni circa il carattere dell’intera impresa. Una fabbrica nata dalla collaborazione tra un committente e un architetto possiede qualità trasferibili all’intero organismo dell’impresa. Una chiara disposizione degli spazi interni, percepibile anche dall’esterno, può semplificare il processo di produzione. Anche da un punto di vista sociale, non è affatto irrilevante che l’operaio d’oggi lavori in un edificio brutto e deprimente piuttosto che in un ambiente ben proporzionato. La serenità accresce la dedizione al lavoro e la produttività dell’impresa”.

Una Germania spaccata in due

La Repubblica di Weimar viene ricordata, nella storia costituzionale, come una “democrazia disarmata”: infatti, la costituzione weimariana concesse ai nemici della repubblica tutto quello spazio di azione politica che consentì loro di abbattere e travolgere le istituzioni democratiche. Gli oppositori della repubblica traevano la propria linfa vitale dalla leggenda della “pugnalata alle spalle” (Dolchstoßlegende). Secondo la propaganda che ne discendeva, la sconfitta della Germania imperiale nella prima guerra mondiale non era imputabile a motivi di ordine militare, bensì politico: la Germania guglielmina era stata sconfitta a causa del tradimento del fronte interno e del disfattismo riferibile alle correnti politiche socialdemocratiche. La propaganda antidemocratica e antirepubblicana accusava la costituzione di Weimar e l’intera vita politica della repubblica socialdemocratica di aver “tradito” e sovvertito i valori più profondi del popolo tedesco: il militarismo, la gerarchia, l’obbedienza, lo spirito di sacrificio. La Repubblica di Weimar, nell’ottica dei suoi acerrimi avversari, nasceva all’insegna dalla perdita delle radici, dello “sradicamento”.

Vi fu una Germania divisa, spaccata in due: da un lato la modernità frenetica di Berlino, la capitale cosmopolita della repubblica, dall’altro la vita tradizionale delle province, molto più riluttanti ad accettare il mondo nuovo sorto dalla rivoluzione. Un’eco di tale frattura, quasi insanabile, si può registrare in Essere e tempo (Sein und Zeit, 1927), la principale opera del filosofo Martin Heidegger: la descrizione della vita inautentica (uneigentlich), persa nelle dimensioni alienanti della curiosità, dell’equivoco, della chiacchiera, della “gittatezza” nel mondo, sembra alludere allo “sradicamento” operato dalla metropoli e dalla tecnica moderna.
Heidegger, il filosofo della provincia tedesca, richiama i propri lettori tedeschi (perché la sua filosofia è scritta in un linguaggio che solo i tedeschi autentici possono comprendere) all’ascolto della “voce dell’Essere”, alla difesa degli antichi valori che non possono essere travolti e annientati dalla modernità democratica. La figura dello “sradicato” per eccellenza è quella dell’Ebreo errante: vagabondo e nomade per non aver riconosciuto il “vero” Dio, l’Ebreo errante è il senza-patria per definizione.

La costituzione di Weimar fu redatta da un giurista di origini ebraiche, Hugo Preuss; i principali ministri della Repubblica di Weimar erano anch’essi di origini ebraiche: su tutti, spicca la figura di Walter Rathenau (ucciso nel 1922 in un attentato terroristico organizzato da estremisti di destra), il quale fu il ministro degli Esteri che dovette curare l’adempimento, da parte della Germania, delle clausole, per molti aspetti “vessatorie”, del Trattato di Versailles. La sua politica dell’adempimento e della contestuale rinegoziazione del Trattato venne additata come un tradimento della patria: la propaganda antidemocratica “picchiò duro” per anni, accusando gli esponenti di origine ebraica della socialdemocrazia tedesca di voler svendere il paese alle Potenze straniere. Nelle parole ossessivamente ripetute dalla propaganda antirepubblicana, parole che nessun fondamento trovavano (né avrebbero potuto trovare) nella realtà politica e istituzionale della Germania dell’epoca, la stessa Repubblica di Weimar si trasformò in una “repubblica ebraica”: “ebraica” proprio perché “sradicata”.

Moltissimo si deve alla Bauhaus e ai suoi maestri

Anche gli edifici del Bauhaus, così funzionali, così adattabili a qualsiasi contesto urbano, erano costruzioni di artisti cosmopoliti, aperti al mondo proprio perché, secondo i loro avversari, antinazionalisti e privi di radici (i tetti piatti delle costruzioni del Bauhaus furono considerati “non ariani”): oltre alla vicinanza politica con la socialdemocrazia tedesca, testimoniata dai valori ai quali si ispirava la scuola, la presenza di alcuni maestri ebrei nel Bauhaus fu determinante, agli occhi dei nazisti, per decretarne la chiusura. Il Bauhaus si disperse per il mondo e, dopo la fine della seconda guerra mondiale, la linearità, la luminosità e la semplicità delle sue architetture si ritrovarono in ogni parte del globo: la “Città Bianca” di Tel Aviv, per esempio, dichiarata dall’Unesco Patrimonio Culturale dell’Umanità, ospita più di 4.000 edifici costruiti in stile Bauhaus. Ma anche camminando per le strade di Ivrea, lungo la via sulla quale sorge Palazzo Uffici, si possono riscoprire le linee funzionali che caratterizzarono lo stile originario del Bauhaus. La somiglianza con il palazzo di Dessau, la più famosa sede della scuola, si rivela in un’evidenza immediata.

Quando, nel 1954, alla prima edizione del Compasso d’Oro, ricevette il premio per la macchina per scrivere Lettera 22 (il cui nome si deve allo scrittore e poeta Franco Fortini), con queste parole Adriano Olivetti omaggiò il Bauhaus: “Non v’è dubbio che se il mondo contemporaneo, dominato dalla tecnica, ha saputo ritrovare le vie della bellezza, e far sì che il prodotto dell’industria non dimenticasse la luce dell’arte, molto, moltissimo si deve alla Bauhaus e ai suoi maestri […] Sarebbe drammatico errore il credere che soltanto il prodotto finito destinato direttamente al pubblico, debba rivestirsi di nuova dignità formale. L’estetica industriale deve improntare di sé ogni strumento, ogni espressione, ogni momento dell’attività produttiva, e affermarsi, nella più completa espressione, nell’edificio della fabbrica che l’architetto deve disegnare sulla scala dell’uomo, e alla sua misura, in felice contatto per la natura perché la fabbrica è per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica”.

A Ivrea, nella fabbrica dell’Olivetti, nella “nostra” fabbrica, i valori ai quali si ispirava il Bauhaus hanno ritrovato una nuova vita, una riviviscenza nelle relazioni industriali e nello spirito della comunità: ciò che i nazionalsocialisti ritenevano “privo di radici” costituisce, invece, la radice intorno alla quale la città di Ivrea si è costituita come comunità. Una comunità in cui l’impresa incontra il lavoratore, non più considerato strumento bensì persona: la democrazia entra nella fabbrica e, con la democrazia, nella fabbrica entrano l’umanità e la cultura. Il sogno olivettiano della “città dell’uomo” si inserisce in un percorso che, come testimonia la storia, non può essere interrotto se non per rinascere in altre forme e con modalità differenti: la memoria delle cose ci racconta vicende del passato affinché noi, camminatori del tempo, possiamo guardare al nostro futuro senza perdere la speranza nell’umanità.


Enrico Daly
Università degli Studi di Milano Bicocca