Amare una tradizione non significa conservarne le ceneri, ma ravvivarne il fuoco
Questa è la storia di una campagna pubblicitaria di fine anni Trenta, organizzata dalla Olivetti per promuovere la macchina per scrivere Studio 42. Abbiamo deciso di raccontarvela perché pensiamo che lasci affiorare efficacemente alcuni aspetti metodologici della diversità olivettiana e per questo possa ancora ispirare chi, oggi, ritorna a operare all’interno di quelle officine di Ivrea che furono teatro di tanti esperimenti produttivi, culturali e politici nel corso del Novecento.
D’altra parte, questa sarà anche la linea di tutta la rubrica che svilupperemo in collaborazione con l’Associazione Archivio Storico Olivetti: di numero in numero, ci proporremo di estrarre da questa miniera di documenti preziosi una testimonianza capace di illuminare il presente e rispondere ad alcune domande che lo attraversano. Estrarremo, insomma, sforzandoci sempre di seguire una logica generativa e non estrattiva. Come ha scritto efficacemente qualcuno, “amare una tradizione non significa conservarne le ceneri, ma ravvivarne il fuoco”.
Una macchina per coniugare robustezza e leggerezza
Ed eccoci al nostro primo caso: le 16 mirabolanti tavole commentate da testi d’autore della campagna, frutto sia del lavoro creativo di giovani promettenti e artisti del calibro di Costantino Nivola, Giovanni Pintori e Leonardo Sinisgalli, sia del brillante corredo critico di una penna in ascesa come quella del poco più che trentenne Elio Vittorini. Con una certa emozione, in archivio è possibile ammirarle nella raccolta di pregio curata da Alfieri & Lacroix nel 1939.
Erano tempi difficili: l’Italia era completamente immersa nel clima repressivo e provinciale della dittatura fascista, mentre, tutto attorno, gli Stati nazionali si preparavano a precipitare nel secondo inferno mondiale. Ma la Olivetti veniva ugualmente da un lungo periodo di crescita vigorosa, sia in Italia che all’estero. La riorganizzazione produttiva voluta dall’ingegner Adriano a cavallo fra gli anni Venti e Trenta aveva consentito di cogliere appieno una doppia opportunità: da una parte, con l’autarchia fascista, il mercato nazionale appariva come un terreno spianato; dall’altra, alcuni grandi competitor internazionali erano entrati in difficoltà con la crisi borsistica del 1929.
Lanciata nel 1935, la Studio 42 era la macchina per scrivere con cui la Olivetti contava di coniugare la robustezza e l’affidabilità delle prime invenzioni di Camillo (M1, M20, M40) con la leggerezza, la comodità e l’eleganza della prima portatile (la MP1 voluta proprio da Adriano, uscita in cinque colori diversi nel 1932). Erano da poco stati ultimati gli ampliamenti della primigenia fabbrica di mattoni rossi, edifici progettati dagli architetti Luigi Figini e Gino Pollini che si ispiravano al Bauhaus e proiettavano la piccola Ivrea in una dimensione europea. Ancora, dal 1931 l’Ufficio Pubblicità e Sviluppo Olivetti, con sede a Milano, si stava distinguendo per il carattere innovativo e internazionale delle sue campagne, oltre che per il perimetro teorico, le premesse intellettuali, insomma la filosofia su cui esse poggiavano. Adesso la linea di Adriano era veramente tracciata: organizzazione scientifica del lavoro, servizi sociali all’avanguardia per i dipendenti, perfezione tecnica delle macchine, tensione estetica che si imprimeva in modo coordinato su tutta la vita produttiva, dallo stabilimento al prodotto, dal negozio alla grafica pubblicitaria. In cima a tutto questo, stava la missione che egli volle assegnare alla sua fabbrica: essa doveva consistere in un vero e proprio strumento per la costruzione di una Comunità nuova e a misura d’uomo. In particolare dalla fine della seconda guerra mondiale — in un contesto internazionale segnato dalla rigida contrapposizione fra due modelli economici, politici e culturali antagonisti — Ivrea sarebbe diventata laboratorio sociale per la sperimentazione di una terza via “alternativa al capitalismo e al socialismo”. Alla fabbrica sarebbe spettato l’inaudito compito di trascendersi, distribuire non soltanto prodotti e stipendi ma anche servizi sociali, cultura, democrazia e bellezza.
Ufficio Pubblicità e Sviluppo
Il progetto per la comunicazione artistica della Studio 42 — chiamato Una campagna pubblicitaria — fu un vero e proprio salto di paradigma nella grafica dell’azienda. Ancora oggi colpisce per la sua bellezza e per l’indipendenza con cui gli artisti dimostrarono di saper giocare con il prodotto, servendosene liberamente per creare composizioni fantasiose. In questi 16 piccoli capolavori “compaiono le mani, le parti meccaniche, gli alfabeti, le ambientazioni delle macchine con i fiori, una rappresentazione della figura femminile affidata a una scultura di Lucio Fontana, ma anche immagini tipiche dell’architettura razionalista del Bauhaus e del futurismo a cui si rifacevano sia Adriano Olivetti, sia gli architetti e i designer che a quel tempo operavano nella sua azienda: forme geometriche, strutture architettoniche schematizzate, spazi definiti e circoscritti, una sfera sospesa a mezz’aria”.
“Fin dagli inizi la pubblicità Olivetti si è richiamata alle più avanzate espressioni dell’arte contemporanea. Per porsi su un piano di vera qualità rispetto alle mode correnti, era necessario trovare un linguaggio nuovo, promuovendo la sensibilità del pubblico e facilitandone il distacco dai luoghi comuni tradizionali. Si trattava, quindi, di un’azione di contenuto più culturale che tecnico, in cui l’oggetto della pubblicità non era tanto il prodotto quanto il servizio che esso poteva realizzare. L’arte moderna offriva molti suggerimenti per esprimere questi concetti, e si spiegano perciò i rapporti della pubblicità Olivetti, negli anni Trenta, con le esperienza cubista e surrealista e, in seguito, astrattista”.
Intellettuali, artisti, scrittori, poeti vennero chiamati a raccolta con l’obbiettivo di costruire l’immagine coordinata dell’azienda. Sotto il dirigismo estetico di Adriano, essa acquisì un codice visivo riconoscibile nel mondo, al di là delle singole declinazioni d’autore o delle singole campagne. Ma nell’Ufficio Pubblicità e Sviluppo era chiaro a tutti che la pubblicità travalicava i confini della comunicazione commerciale per farsi occasione di elevazione culturale collettiva. Se la fabbrica era diventata uno strumento di riforma e non solo luogo di produzione, allora era responsabile della qualità della vita dei dipendenti, della qualità dei prodotti, ma anche della qualità dei segni che essa quotidianamente emetteva.
“Desideriamo infine ribadire della scarsa utilità didattica, per noi, della pubblicità americana. Riconosciamo la maestria tecnica, riconosciamo la potenza dei mezzi come ammiriamo il tecnicismo della cinematografia di Hollywood. Respingiamo il suo spirito. Essa specula sull’ingenuità del pubblico là dove una tradizione antica ha sviluppato negli italiani uno spiccato buon senso, un’acuita disposizione alla critica, un fondamentale scetticismo, una più vigile sensibilità”.
Erano le parole che il triestino Renato Zveteremich — Direttore dell’Ufficio Pubblicità e Sviluppo fra il 1931 e il 1938 — aveva scelto per delineare all’inizio del suo mandato una sorta di programma di lavoro. Senza entrare nel merito della riflessione sulla pubblicità americana, rileviamo come essa partisse da un assunto che, a distanza di settant’anni, mantiene intatta la sua carica innovativa: un’impresa deve avere un pensiero. Un’impresa deve costruire una teoria del proprio lavoro, una coscienza del proprio ruolo nel mondo e continuamente affinarle, poiché anche dalla loro ricchezza dipenderanno le sue motivazioni, le sue decisioni e persino il suo stile.
Elio Vittorini
Se la Olivetti non si fosse considerata anche luogo di produzione di concetti, per esempio, difficilmente avrebbe ingaggiato per Una campagna pubblicitaria uno scrittore come Elio Vittorini. L’intellettuale siciliano era quanto di più lontano si potesse trovare dalla figura del copywriter, dal professionista della scrittura che si dispone a dire, con le migliori parole possibili, quanto il committente desidera sia comunicato a proposito della sua impresa e dei suoi prodotti. Vittorini aveva iniziato la sua attività di critico e scrittore nell’atmosfera culturale di “Solaria”, una rivista letteraria fiorentina che tra il 1926 e il 1936 era stata il luogo di raccolta e di azione della più avanzata letteratura novecentesca (ospitando le prime prove di Carlo Emilio Gadda, Cesare Pavese, Vittorini stesso; ripubblicando Italo Svevo; rivalutando criticamente Giuseppe Ungaretti e Eugenio Montale; diffondendo la conoscenza di Umberto Saba) e aveva rappresentato una sorta di argine letterario e poetico alla retorica fascista. Ancora, Vittorini aveva da poco terminato il suo capolavoro Conversazione in Sicilia, un romanzo in cui rivelava tutta la sua incompatibilità esistenziale con un paese oppressivo e che fu per questo censurato dal regime fascista (nella prima pagina, un giovane intellettuale “in preda ad astratti furori” si dichiara inadatto alla vita che lo circonda, con i suoi riti privati e pubblici: “vedevo manifesti e giornali squillanti e chinavo il capo”).
Elio Vittorini, insomma, non avrebbe mai potuto essere per la Olivetti un semplice fornitore di testi, ed era esattamente questo il motivo per cui venne invitato a produrli. L’azienda era alla costante ricerca di pensiero critico: prima ancora che parole di qualità per comunicare un prodotto di qualità, si aspettava da lui un contributo intellettuale in grado di arricchire il dibattito interno sul senso stesso del produrre, sul senso stesso del comunicare. Nella consapevolezza che soltanto da lì, dalle vette di quel dibattito, sarebbero potute discendere invenzioni narrative e grafiche senza tempo.
Ecco dunque quanto scrisse Vittorini per presentare le 16 tavole della campagna: “La serie di tavole che presentiamo costituisce un caso che, nello stato presente della pubblicità italiana all’estero, merita qualche chiarimento. Da che cosa nasce la pubblicità? Da bisogno, sentimento o calcolo di auto-affermazione. Il problema degli scopi da raggiungere, conquistar proseliti, conquistar clienti, è stato risolto unicamente per via di valori quantitativi. Trattandosi di gridare, la gara è stata a chi gridava più forte, a chi gridava con più insistenza, a chi gridava più di continuo. E i più violenti sono stati i più bravi; hanno rapito il regno dei cieli. E allora? Allora bisogna fare quello che si sarebbe dovuto fare fin dal principio. Bisogna rendere qualitativo il fatto quantitativo. L’uomo è qualità. E se un atto di forza vuole essere veramente vitale bisogna che impegni l’uomo in umanità, in qualità. Nessuno, naturalmente, dice che la pubblicità non debba più essere affermazione. Il problema è che sia affermazione essendo un’altra cosa, essendo una cosa qualitativa, qualificandosi. Deve insomma avere un’altra ragione di esistere, che la faccia esistere di per sé stessa innanzi all’uomo. E questa ragione non può essere che la ragione per cui esistono le opere d’arte: la ragione di nessuna ragione, di nessuno scopo. Le tavole che presentiamo sono state appunto concepite secondo i risultati di una lunga pratica in tal senso. Gli autori si sono serviti in esse dell’affermazione come di materia pura e semplice. Il prodotto hanno preso come elemento da elaborare in immagine, non già come dogma da imporre. E di volta in volta hanno cercato di stabilire corrispondenze linguistiche, tra l’elemento prodotto ed altri elementi (gratuiti), le quali attirassero l’attenzione della fantasia per darle poi libero gioco nel modo in cui le dà libero gioco un’immagine poetica, un’opera d’arte. Certo, dietro a queste tavole, c’è uno scopo che resta, in definitiva, quello comune di ogni pubblicità. Pure, gli autori delle tavole hanno lavorato senza tenerlo presente, tenendo presente uno molto più immediato: creare immagini che riuscissero a durare nell’uomo e a vivere in lui. È lo stesso scopo altamente ambizioso di un poeta, di un pittore. Ma se solo l’arte può qualificare, e far durare, far vivere, ottenere l’impegno dell’uomo, la pubblicità deve essere arte”.
Consideriamo velocemente chi furono gli artisti più importanti coinvolti nella campagna. Ci colpiscono la loro giovane età (e, di conseguenza, la capacità dell’azienda di intercettare e valorizzare talento cristallino non ancora rivelato); le qualità artistiche e la disponibilità a sperimentare; la loro provenienza dagli angoli più remoti del paese, in particolare del sud, e quell’essere portatori quasi naturali di tradizioni, sensibilità multiformi, di un saper fare eterogeneo, antico e angolato. Il basilicatese Leonardo Sinisgalli si sarebbe affermato in Olivetti come una delle figure più eclettiche della cultura italiana, celebrato come “poeta delle due muse” per la disinvoltura con cui metteva in dialogo sapere umanistico e sapere scientifico. I sardi Salvatore Fancello, Costantino Nivola e Giovanni Pintori avrebbero portato memorie, colori e materia dal cuore del Mediterraneo. Nivola, per esempio, si sarebbe fatto conoscere nel mondo per la tecnica del sand casting (il suo paese natale Orani, nel cuore della Barbagia, era ricchissimo di mastri muratori); Pintori avrebbe scritto alcune pagine importanti della storia della grafica per il coraggio di certi accostamenti cromatici, certe ripetizioni giocose (una lontana eco, forse, dell’arte del ricamo caratteristica dell’isola).
Un immaginario originale
Se teniamo conto delle parole di Zveteremich a proposito della pubblicità americana, capiamo chiaramente come, per questa via, la Olivetti non stava replicando codici d’importazione, ma costruendo un’immaginario originale che mescolava radici millenarie e presagi di futuro e che, proprio questo, si sarebbe fatto apprezzare anche al di là dell’oceano. Era l’esempio di un’impresa italiana che conquistava il mondo mettendo sullo stesso piano ricerca tecnico scientifica, innovazione organizzativa e libertà espressiva, combinando questi elementi grazie a una missione alta e chiara. Un processo simile richiedeva la disponibilità di tutti a sperimentare, anche nella comunicazione. Del clima particolare che attraversava l’Ufficio Pubblicità e Sviluppo Olivetti, ha scritto Costantino Nivola:
“I lavori venivano commissionati ad artisti grafici indipendenti, come Carboni, Nizzoli e altri. Renato Zveteremich svolgeva la funzione di coordinatore sotto le direttive di Adriano, che esigeva che tutto l’aspetto visuale della Olivetti fosse fatto a livello artistico. Questo signor Zveteremich era un personaggio bizzarro, esuberante e molto ambizioso e la sua iniziale ostilità verso di me si mutò ben presto in esagerata simpatia e fiducia. Credette di avere trovato finalmente quello che gli mancava: una mano scaltra per il suo cervello genialoide. Venni promosso a svolgere compiti più impegnativi e per sostituirmi alle funzioni precedenti suggerii Pintori, che venne assunto come impiegato. Alla Olivetti con Fancello, Pintori, Guizzi, Algarotti e altri, abbiamo contribuito alla formazione dello studio grafico, soprattutto con le nostre potenzialità intuitive. Anche se nessuno ci aveva spiegato in che modo i principi del disegno sono gli stessi applicabili al disegno del grattacielo, del cucchiaio o della pagina pubblicitaria, noi vi abbiamo creduto”.
Mai azienda frequentò con tanta disinvoltura il mondo dell’arte, facendosi carico del privilegio, e anche della fatica, di accoglierne al proprio interno slanci libertari, visioni, rovelli e inquietudini. Più di ogni altra considerazione valgono le parole scelte da Renzo Zorzi per descrivere il contributo portato dall’artista Giovanni Pintori al codice visivo olivettiano. Con esse vogliamo chiudere il nostro racconto perché si tratta, a leggere con attenzione, di un vero e proprio omaggio all’impresa in quanto comunità pensante, in quanto piccola “società aperta” che si lascia attraversare dalla più grande varietà di tipi umani ed è capace, anche per questo, di rinnovare il suo sguardo su un mondo che cambia rapidamente.
“Alla Olivetti dal 1936 al 1967, Pintori era un grafico venuto dalla allora selvaggia Sardegna, che aveva studiato a Monza, vicino a Milano. Era molto amico di Costantino Nivola, anch’egli impegnato nell’allestimento del negozio Olivetti sulla Fifth Avenue a New York. Tenace come un sardo, egocentrico, dal carattere impossibile, pittore, lui sì, in segreto, appassionato di barche e di mare, portò nella grafica Olivetti la limpidezza, la semplificazione, l’essenzialità, e un colore da cielo primaverile appena spezzato da un temporale».