Una specie di faro
Le Officine ICO (Ing. Camillo Olivetti) di Ivrea, tutto e il contrario di tutto. Il posto dove, per gloriosi decenni del secolo scorso, il lavoro si era dato una missione, la più alta e chiara, e dove si fabbricavano prodotti e orizzonti all’attenzione del mondo. Ma anche il posto dove, a seguire, la desolazione si era fatta il nido, con le luci spente, i corridoi vuoti, la ruggine sui cancelli, le croste di vernice sui pavimenti a segnalare decenni di segno opposto.
Un nuovo giorno è cominciato da quando l’enormità silenziosa di questo gigante di vetro ha una nuova proprietà, costituita da diciotto soci paritari del territorio intenzionati a ripopolarlo e rimetterlo al centro della vita produttiva, sociale, culturale del territorio stesso. Un nuovo giorno è sempre possibile se si riparte dalle attenzioni perché riqualificazione, riforma, processo sono parole che vengono dopo. E le attenzioni si erano già rivelate da tempo, erano diventate energie che affioravano in ordine sparso, qualcuna sprigionata a sua volta da una vocazione, qualcuna da un’ambizione, qualcuna da un progetto e qualcuna da un interessamento concreto. Tutto è prezioso, tutti sono preziosi, tutti servono se si vuole immaginare un destino comune e tracciare una nuova rotta. Le luci finalmente accese di via Jervis possono diventare ancora una volta una specie di faro.
Una nota di diapason
Mancava anche una nota di diapason. Dare appuntamento dentro a una rivista alla bella pluralità di voci che ancora vivono è la nostra proposta per andare in questa direzione. Purché sia qualcosa di diverso da una rivista fra le riviste, purché sia un diario pubblico che venga vissuto da tutti come opportunità di dialogo, intreccio, arricchimento reciproco e non soltanto come il racconto della riqualificazione a chi si è appena insediato, a chi lo farà o potrebbe farlo, a chi semplicemente avrà il piacere di essere informato. Un primo repertorio di storie, idee, immagini dedicato e comune per accompagnare questo mattino presto in cui il gigante di vetro sta tornando dopo tanto tempo ad aprire gli occhi.
L’eredità olivettiana è un privilegio e un fardello, un involto prezioso che bisogna avere l’ardimento di aprire per dividere le cose e lasciare indietro quelle che non ci servono più. Per ripartire un poco più leggeri verso direzioni nuove. Non si può vivere di solo passato e così, anche attraverso questa pubblicazione, ci si deve mettere alla prova per togliersi dall’angolo della memoria, storicizzare, metabolizzare. Confortati, in questo, dal variopinto mondo che ogni giorno bussa alla portineria delle Officine ICO chiedendo permesso in tante lingue e in tanti accenti, da questo andirivieni alla ricerca di un po’ di ispirazione. Ma occorre farsi trovare pronti, trasmettere l’essenza viva della storia che lì dentro si è compiuta, senza farsene semplici figuranti.
Un occhiolino ai fasti
Alla rivista serviva un nome. “La rapidissima” è lo slogan che 100 anni fa accompagnò l’uscita di una macchina per scrivere Olivetti, la M20, che si fece largo anche al di fuori dei confini dell’Italia. Un titolo con una storicità, dunque, un occhiolino ai fasti. Ma rapidissima sarà soprattutto la capacità di questo diario pubblico di accendersi a uno stimolo del mondo, la sua disponibilità a includere, collaborare, intrecciare. Rapidissime saranno le sue porte girevoli, tra dentro e fuori, passato e futuro, locale e globale, perché le idee e le opportunità circolino liberamente e in ogni direzione. La Rapidissima non va di fretta. Velocità sarà delle attenzioni e non dei passi. Sarà prontezza nel prendersi cura.
Serviva anche riannodare un filo. Con tutti coloro, donne e uomini, che questo posto lo videro nascere e lo popolarono, che oggi compaiono nelle foto storiche appese alle pareti dei primi ambienti restaurati, sempre in bianco e nero, sempre con quell’espressione così seria, le mani sporche di grasso e la limatura di ferro nelle tasche. O che hanno progettato cinematici e circuiti, i più conosciuti e i meno, che hanno assistito i bambini negli asili o distribuito i libri nelle biblioteche. Oppure fatto la storia della grafica internazionale, scritto istruzioni per l’uso che sembravano sonetti, fatto di locandine quadri, che hanno suonato la campana.
Che cos’è la cultura?
Serviva, infine, una definizione di cultura che chiarisse lo spirito con cui La Rapidissima vuole mettere le sue parole, le sue immagini e le sue idee a disposizione della rinascita di una delle più importanti fabbriche del Novecento. Che cos’è la cultura? Che cosa può fare per noi? In particolare nel processo che si è appena avviato? Chi vi scrive prova a dare il via ai lavori con il suo contributo, una sorta di cardine di questo primo numero che vuole riflettere sul tema degli spazi, delle forme, del ruolo che possono giocare nella costruzione della comunità di domani: la cultura è un particolare sistema di sicurezza che consente, in caso di emergenza, di tenere tutte le porte aperte.