Franco Fortini e il Progetto n. 128

C’è un cinema invisibile che ha saputo registrare nel tempo, con discrezione e tenacia, le evoluzioni sociali del Paese in ogni suo aspetto: è quello dell’ampio materiale filmico custodito dall’Archivio Nazionale Cinema Impresa di Ivrea.

Un film pop di grande impatto visivo

C’è un cinema invisibile che ha saputo registrare nel tempo, con discrezione e tenacia, le evoluzioni sociali del Paese in ogni suo aspetto: è quello dell’ampio materiale filmico di repertorio, di provenienza più diversa — imprese, enti pubblici, famiglie, registi sperimentali e amatoriali — che in questi ultimi anni è stato oggetto di un lento recupero. I film d’impresa in particolare tornano alla luce dopo anni di abbandono restituendoci aspetti significativi del mondo del lavoro, della cultura che esso ha prodotto, della quotidianità aziendale, del rapporto con i consumatori. In essi possiamo rintracciare l’evoluzione complessiva della società del secolo scorso, l’influenza reciproca fra industria e immaginario collettivo.

Uno dei tanti esempi delle occasioni di riflessione sulla storia del Novecento che questo cinema invisibile può dischiudere è senza dubbio il film aziendale Progetto n.128: prodotto da Fiat nel 1969 per promuovere la nuova vettura 128, realizzato da Valentino Orsini e scritto da Franco Fortini (che però preferì non comparire fra gli autori), esso è un vero e proprio film pop di grande impatto visivo. Si tratta di una delle migliaia di documenti che ci consentono di gettare una luce critica sui rapporti che il mondo dell’industria, con le sue logiche e le sue esigenze, ha sempre intrattenuto con il mondo della cultura e dell’arte. Rapporti bidirezionali e talvolta contraddittori. Si pensi alla figura di Franco Fortini, una delle personalità intellettuali più vive del dopoguerra: alla sua attività di poeta, scrittore, polemista acuto e critico militante ha intrecciato quella di autore di testi per importantissime aziende italiane: come la Olivetti, in modo aperto, stabile e continuativo; come la Fiat, in modo occasionale e non dichiarato.

Fortini iniziò a scrivere per il cinema nel 1950 proprio in occasione del film di Giorgio Ferroni Incontro con l’Olivetti, in cui si descriveva la “fabbrica-mondo” di Ivrea, in grado di trascendersi e portare sviluppo anche nella vita sociale extralavorativa. Sempre per Olivetti, in pieno 1968, aveva lavorato ai testi di due film diretti da Aristide Bosio (Divisione controllo numerico e Auctor. Meccanica a controllo elettronico) e di uno più chiaramente ispirato al tema politico olivettiano dell’integrazione virtuosa fra progresso tecnologico e sociale (Le regole del gioco di Massimo Magrì). Di quest’ultimo resta attualissimo l’incipit: “Dicono che affogheremo nella carta straccia, dicono che il profumo del carburante ha condannato l’odore di qualunque erba. Da trent’anni ci spiegano che la corsa al consumo consuma ogni specie di corsa, che in fondo ai corridoi del supermercato c’è un Minotauro a premi. Ma ai mali del presente si rimedia solo con un po’ più di presente. Le macchine vinceranno le macchine. Ecco tutto”.

Anche la collaborazione di Fortini con la Fiat per il film Progetto n. 128 risale alla turbolenta stagione del 1968–69. In Italia il clima sociale e politico era arroventato, segnato da scioperi e serrate, in un aspro conflitto fra capitale e lavoro che esplodeva dentro e fuori le fabbriche: se da una parte lo scrittore toscano compariva fra i collaboratori di spicco di una rivista della sinistra radicale come I quaderni piacentini, dall’altra produceva testi per la promozione dell’immagine di quell’azienda automobilistica torinese che si trovava al centro delle lotte. Forse per questo, scelse di non comparire come autore di Progetto n. 128. Ma la sua scrittura si riconosce con estrema chiarezza: “Nel Centro meccanografico le opinioni, i desideri, i pareri dell’inchiesta di mercato si mutano in cifre, percentuali, schede. Si verificano o si correggono ipotesi alla luce di innumerevoli dati, si ottiene una proiezione statistica di gusti e bisogni o, se si vuole, un referendum di idee. Se un’auto nuova vuole inserirsi con autorità nella classe 1100, si dovrà pur sapere che i ceti, i bisogni, i poteri di pochi anni fa non sono più quelli d’oggi. Il mondo insomma, tutto il mondo è diverso e diversa sia anche l’auto sua d’oggi giorno. I tecnici pesano le preferenze, valutano ambizioni e scelte e persino le percentuali dei silenzi. Voci del mondo e della vita, voci dell’esperienza, della fatica e dell’allegria entrano nel disegno, correggono le ipotesi del progetto, lo animano…”.

In questa sede non è nostra intenzione dibattere a fondo sulle ragioni di un impegno che ad alcuni potrà apparire contraddittorio. Meno che mai quello di assegnare patenti di coerenza. Come ci diverte la riflessione fulminante del critico Cesare Garboli — “se c’è un luogo dove non vorrei entrare neppure per tutto l’oro del mondo, questo è la mente di Franco Fortini” — allo stesso modo ci convince quanto lo stesso Fortini rivendicava per se stesso e per la propria arte già nell’immediato dopoguerra: “non potrò mai credere alla verità una volta per tutte; non so rinunciare alla mia verità ed ai miei errori”. Ci pare, anzi, che uno dei lasciti più importanti della sua produzione stia proprio in questa sua sfida costante allo specialismo, al principio gerarchico dell’ognuno al suo posto: “Potenza della cultura vuol dire che i mezzi di fare dell’uomo una persona invece che uno schiavo e un tiranno siano nelle mani e nel cervello di coloro che non sono né schiavi né tiranni, ma persone; vuol dire dare a questi gli strumenti per riconoscersi e, a tutti, gli strumenti per riconoscerli”.

Partecipare, dunque. Vivificare con le proprie riflessioni critiche, le proprie parole e il proprio stile ogni aspetto della vita sociale (compreso quello economico produttivo) significa elevarlo, raffinarne i contenuti, allargarne il perimetro per per renderlo più inclusivo possibile. Un modo, il modo forse, di giocare un ruolo culturale profondo.

Una lettura più ricca del nostro tempo

Per concludere: con questo nostro primo intervento sulla nascente rivista ci premeva prima di tutto dimostrare come il cinema invisibile che custodiamo, se interrogato con nuove domande, può rivelarsi uno strumento utile e affascinante per concedersi una lettura più ricca del nostro tempo, meno appiattita sugli stereotipi. Come ha scritto Alberto Savinio in Dico a te, Clio: “la storia raccoglie le nostre azioni e le depone via via nel passato. Una perfetta organizzazione di vita farebbe si che tutte le nostre azioni, anche le minime e più insignificanti, diventassero storia: per togliercele di dosso, per non farcele più sentire sulle spalle. (…) Quella sarà civiltà perfetta che tutto tradurrà in storia, e ci consentirà di ritrovarci ogni mattina in condizioni di novità, liberi dal passato”.


Elena Testa
Responsabile Archivio nazionale Cinema impresa