Mutamenti da interpretare
Può accadere, nel corso della storia, che si perda l’orientamento. Le fasi di passaggio possono durare molti anni, esser percepite con difficoltà (e con qualche renitenza) dall’interno, e stimolare reazioni nostalgiche forse comprensibili, ma certamente dissennate. Quando non si sa più che cosa fare si costruisce un bel muro, sintomo di fragilità da nascondere. L’aveva fatto, per fare un esempio storico, l’imperatore Aureliano nel terzo secolo confidando di scoraggiare i flussi di uomini che da nord scendevano alla ricerca di nuove risorse e di una vita meno complicata.
Dalla Rivoluzione Francese in poi, invece, tutto era sembrato definitivo: una società stratificata, la cultura come decorazione della borghesia dominante, l’impresa come modello della produzione, ma anche delle dinamiche sociali e del benessere interpretato come accumulazione di beni. La serialità del paradigma manifatturiero richiedeva un modello standard di impresa, un lavoratore capace di replicare indefinitamente gesti meccanici, un ventaglio di metriche fondate sulla dimensione.
La stessa concezione del benessere (e della felicità) si basava su un fraintendimento dimensionale: per oltre due secoli la quantità ha prevalso caparbiamente sulla qualità. La realtà è più versatile delle interpretazioni che se ne fanno e incede lentamente, ma con decisione. Il disorientamento di questi anni (quando è cominciato?) è il sintomo di un mutamento profondo che richiede attenzione delicata. In questo smottamento che, per la prima volta dopo la Rivoluzione industriale, rimette in discussione il nostro rapporto con lo spazio e con il tempo, non serve a granché cercare modelli di riferimento. È invece tempo di esplorare i nuovi territori della società, dell’economia e della cultura, cercandone le radici in intuizioni che quando tutto sembrava funzionare erano state derubricate ad anomalie, e che adesso possono tracciare un percorso che costruisca nuovi orientamenti. Serve scrivere un nuovo glossario.
Che cos’è un’impresa?
Se è evidente che parole come “Dio”, “Patria” e “Famiglia” sono diventate una specie di randello nelle mani di troppi facinorosi che se ne appropriano per convenienza (e spesso per ignoranza), altre parole sono da tempo oggetto di un abuso semplicistico. La comodità rassicurante dei manuali ha bisogno di linguaggi statici. “Impresa” è una di queste parole che, pure, avrebbe un significato molteplice, versatile ed emotivo, e che — con la consueta tentazione viscerale che separa i guelfi dai ghibellini — è stata associata ora all’efficienza, ora alla sopraffazione.
Così, in modo del tutto superficiale, si parla dell’azienda: una struttura legale che racchiude una macchina organizzativa in cui strumenti e tecnologia gestiti da manager contribuiscono al perseguimento del massimo profitto (o del massimo volume di vendite). Finché lo scopo della società è accumulare beni e utilizzare servizî, in una temperie dominata dal confronto anche simbolico con chiunque altro, i dati quantitativi (dalle quotazioni di borsa ai cambi valutari) segnano lo sforzo quotidiano di primeggiare, cosa che può funzionare finché la società rimane avvolta da una spirale imitativa e competitiva.
Sia pur lentamente, e timidamente, la società sa evolversi. Dopo gli anni della crescita dimensionale si è accorta di nuove diseguaglianze, di emarginazioni inattese, dell’emersione di nuovi bisogni e soprattutto di nuovi desideri. Le risposte che ci aspettiamo dal sistema economico devono risultare sintonizzate — possibilmente in anticipo — con lo spirito del tempo che viene. In questo quadro la parola “Impresa” vuol dire tutt’altro: è una sfida rischiosa volta a un fine non convenzionale (la conquista della fanciulla prigioniera nel castello?), affronta una realtà cangiante e poco prevedibile (la forza ottusa del drago?), richiede intuizione, sentimento e lucidità.
Sottrarre all’impresa la sua natura cavalleresca (quella che lo stesso Alois Schumpeter definiva “spirito animale”) ne riduce le dinamiche a un foglio di calcolo, ne valuta le azioni sulla base del bilancio, ne misura il successo in termini dimensionali, enfatizzando il prodotto e ignorando il processo. Questa lettura atrofica poteva illudere nel paradigma manifatturiero seriale: adesso appare superata e comunque dissonante rispetto alla scomposta ebollizione di un’economia che, nel bene e nel male, ridisegna la propria gerarchia dei valori.
Cultura, un altro malinteso
Un’altra parola abusata e ridotta ad arnese dimensionale è “Cultura”, che la vulgata fraintende per erudizione (la quantità di nozioni che si possiedono), il club dei puritani promuove a linea di demarcazione tra virtuosi e barbari, le istituzioni considerano un’etichetta d’ingresso per ottenere fondi pubblici. Paidéia per gli Antichi Greci, “cultura” è il participio futuro della parola “colere” (coltivare, prendersi cura) e indica un processo paziente, amorevole, delicato e dagli esiti imprevedibili che può moltiplicare il valore della curiosità e della contemplazione.
La stessa svista concettuale che ha ridotto l’impresa a ferraglia ha preferito interpretare la cultura come un elenco di oggetti (sempre una convenzione, e sempre un’ossessione dimensionale): resa istituzionale negli anni della ghigliottina, serviva alla borghesia industriale ad appropriarsi di un passato che ne potesse giustificare il potere. La cultura, a ben guardare, è un processo eclettico e fertile condiviso e metabolizzato collettivamente: non potrebbe formarsi e arricchirsi nel tempo senza una comunità.
Adesso, tanto più nella fragilità complessa di un mutamento radicale, possiamo connettere i tre elementi di fondo del nostro mosaico: impresa, cultura, comunità. Era quello che Adriano Olivetti vide con chiarezza, troppo presto in un sistema sociale, culturale e imprenditoriale che tende a proteggersi sopravvivendo e ignorando i segnali che da vari versanti disegnano una rotta precisa. Se la logica mainstream dei manuali continua a etichettarli come anomalie, sono tanti i motivi per esplorarne alcuni che non per caso mostrano una visione comune.
Eco-sistemi ostili: la sfida di GOEL
Un segnale molto forte, eppure morbido, emerge da un eco-sistema complicato nel quale impresa, cultura e comunità ogni tanto appaiono del tutto assenti. Quando le cose sembrano bloccate una reazione contraria può irrigidire tutto, e la via efficace — per quanto a prima vista paradossale — è attivare percorsi fondati su tutto quello che sembrava mancare in un territorio difficile e condizionato dalla presenza asfissiante della malavita organizzata: fiducia, empatia, convinzione, ricerca, creatività. È quello che ha fatto il Gruppo Cooperativo GOEL, fondato nel 2003 da Vincenzo Linarello e attivo nella Locride.
È, nella stessa definizione fondativa, una comunità di persone, imprese e cooperative sociali che opera per il riscatto e il cambiamento della Calabria: ne fanno parte 12 imprese sociali, 2 cooperative agricole, 2 associazioni di volontariato, una fondazione e 29 aziende agricole. È una comunità in espansione cui aderiscono tanto organizzazioni quanto professionisti e volontari. La sua cifra è molto semplice: l’etica efficace. In questo modo si abbatte la cesura tra i principi e le azioni, che tuttora caratterizza buona parte del milieu industriale.
GOEL riconnette con nuova disinvoltura impresa, cultura e comunità. Si occupa di accoglienza per bimbi e adolescenti, persone con disabilità, migranti, emarginati. Può sembrare filantropico, e lo è certamente; soprattutto, genera una comunità fondata sul rispetto reciproco e sulla condivisione del senso di appartenenza. Assiste le imprese incoraggiandole a scegliere l’etica come metodo e l’indipendenza come approccio, anche per arginare il brain drain che in terre come la Calabria dura da fin troppo tempo.
Il valore dell’etica efficace
Non si tratta, comunque, di un hub che pure risulta prezioso per la sua capacità di accogliere in modo reticolare esperienze e imprese diverse. GOEL non si limita ad agire da snodo centrale di un reticolo di imprese e gruppi sociali: la sua azione parte da una visione organica (che ciascuna singola impresa può trovare più complicato costruire da sola) che diventa essa stessa impresa, dimostrando che i principi e i valori perseguiti hanno un riscontro concreto nella propria attività. GOEL ha costruito e gestisce due filoni creativi e produttivi di grande rilievo.
“Cangiari” è il primo brand eco-etico dell’alto di gamma della moda, che affonda le proprie radici nel saper fare tessile della Calabria: telai a mano che trasformano in modo creativo tessuti e filati biologici ed ecologici per opera di cooperative sociali che inseriscono al lavoro persone disoccupate o svantaggiate. “GOEL Bio” è l’altra branca imprenditoriale, in forte crescita, che aggrega aziende agricole biologiche: qui la condivisione del percorso produttivo e la dimensione collettiva permettono di saltare lo snodo degli intermediari e la connessa perdita di valore dei conferimenti; in questo modo resistere al giogo della ‘ndrangheta restituisce libertà imprenditoriale e al tempo stesso rende l’attività più conveniente economicamente. La produzione biologica è certificata accuratamente: anche in questo caso l’etica si combina naturalmente, è il caso di dirlo, con l’efficacia.
Vincenzo Linarello ci ha esposto con grande chiarezza i principi sui quali si fonda il lavoro di GOEL: ”Il concetto che abbiamo maturato strada facendo, collegando i punti delle cose che hanno funzionato, è quello di etica efficace. Un concetto che ha declinazioni politiche, sociali ed economiche. Isoliamo il concetto di mercato. Ereditiamo ancora oggi l’impianto teorico di Adam Smith, in una visione in cui qualità e prezzo sono i vettori che regolano l’andamento del mercato. Sfugge il bisogno potentissimo di senso. Nella mia vita ho incontrato molte persone che sbrigativamente — e non senza ragione — potremmo definire cattive, persone spesso potenti. Nel conoscerle, mi sono accorto che tentavano comunque di dare un senso alle proprie azioni. Al bisogno di senso, insomma, non sfugge nessuno. Se introduci senso in un processo economico ottieni qualcosa di grande che sfuggiva alle teorizzazioni originarie. Il prodotto o il servizio qualitativamente adeguato e con prezzo ragionevole può fare la differenza se è il portato di un investimento etico. Esiste insomma un capitale fiduciario che rappresenta una risorsa particolare, in grado di riscattare un territorio: per essere decisiva, tuttavia, dev’essere autentica. Altrimenti svanisce. Non si può bluffare, prima o poi la verità viene a galla”.
Lo spettro d’azione di GOEL copre non soltanto una varietà di imprese e settori che innestano l’approccio etico sulle risorse del territorio: la sua azione si espande al territorio regionale calabrese e mette a fuoco gli elementi critici che toccano l’intero Mezzogiorno. La temperie di quest’anno, resa fragile dal virus, va affrontata con decisione, guardando lontano: un’infrastruttura digitale pervasiva, il rafforzamento dell’agricoltura biologica, un nuovo modo di viaggiare orientato al turismo lento e intenso, un mutualismo sostenibile, una sussidiarietà informale e incisiva sono le proposte urgenti che GOEL rivolge alle forze del Mezzogiorno.
Impresa, natura, arte: il progetto Nanaaleo
L’imprenditoria ha una valenza politica, nel senso più nobile della parola. Impegnandosi direttamente in una sfida non fa che ridisegnare la gerarchia dei valori. È qui che impresa, cultura e comunità formano un calderone osmotico. Lo dimostra in modo eloquente “Nana’E’El”, la linea di moda di Nanaaleo — impresa pugliese fondata nel 2010 da Ivana Pantaleo — che sposta il fulcro dal prodotto al processo innescando un’ebollizione creativa capace di restituire armonia al rapporto tra natura, arte e bellezza.
Tessuti naturali, colori ecologici e vegetali, tecniche artigianali. La moda — dalla sartoria degli abiti unici al prêt-à-porter — parte dal recupero di tradizioni agro-tessili: lino, canapa, piante tintorie, bachi da seta permettono di costruire capi di abbigliamento senza utilizzare sostanze tossiche. Fonte di benessere con il progetto “Clotherapy”, che esalta le proprietà terapeutiche di colori, aromi e pietre, l’azione di Nanaaleo rispetta la natura, rafforza la salute e risulta sostenibile. Anche in questo caso il bello, il buono e l’efficace coincidono. Nella visione di Ivana Pantaleo l’imprenditore è artista. Può apparire quasi blasfemo, ma basterebbe ricordarci che prima delle tassonomie seicentesche (non a caso il periodo i cui si diffonde il primo capitalismo e si scatena il colonialismo) l’arte ha incarnato visioni progettuali, costruito città, inventato strumenti. L’impresa si fonda, in questo modo, proprio sulla cultura. Ripercorre la filiera naturale che dalle fibre botaniche genera tessuti, attraversa lo snodo della creatività per disegnare forme innovative, combina l’armonia con il dinamismo. Presente in molte manifestazioni internazionali (tra le altre Montecarlo e Londra), raccontata in lungometraggi e in trasmissioni televisive, Nanaaleo cresce nella ricerca e nell’innovazione.
Nelle parole della sua fondatrice, Ivana Pantaleo, è un’impresa che “nasce perché l’abito possa essere segno di consapevolezza oltre che specchio di bellezza, gioia di vivere, salute e armonia. Nella mia visione imprenditoriale e politica vi è proprio l’idea di arte e imprenditoria come congiunzione indissolubile, ai fini di una ripresa economica e anche spirituale. Abbiamo bisogno del contatto con la natura, perché è nostra madre, ed è bella, ci nutre, ci ricarica, ci rasserena. Chiedete ad un bambino se preferisce giocare sul prato con una capretta o sull’asfalto vicino alle macchine che passano veloci. Gli imprenditori del futuro dovranno necessariamente essere degli artisti, con l’unica necessità di creare bellezza, anche attraverso il tappo di una bottiglia. Dove vi è fame bisogna nutrire lo spirito oltre che il corpo delle persone, non considerarle numeri da sfruttare ma individui necessari alla comunità e al benessere di tutti.
O vi saranno sempre esclusi che, nella debolezza, cercheranno la distruzione, se non saranno forti di spirito. Il valore delle cose va rimesso al suo posto. Chiediamolo a tutti i popoli tribali, che vivono nel rispetto della natura, cosa è sacro per loro e che proprio per questo vengono massacrati nel silenzio generale. Chiediamolo ai libri di storia, se i greci, genitori della nostra cultura, non considerassero fondamentale per il benessere della polis la presenza del teatro, luogo di insegnamento e consapevolezza. Abbiamo perso la poesia e l’eleganza e questo ci ha impoveriti. È facile citare Dostoevskij e i molti altri che dissero: la bellezza salverà il mondo. Non aspettiamo che siano gli altri a farlo. Creiamo cose belle. Rimettiamo le cose in ordine e tutto funzionerà meglio”.
Tra Milano e Dar es Salaam: Endelea
Impresa, cultura e comunità si ritrovano, in un contesto diverso e in una visione simile, nell’esperienza di Endelea, brand di moda etica fondato nel 2018 per ibridare il saper fare della Tanzania e il design italiano. In swahili “endelea” significa “andare avanti, continuare senza arrendersi”: “un gruppo di sognatrici e sognatori guidato dalla passione e dal coraggio, che crede nella creatività, nelle connessioni e nel valore delle persone e delle loro capacità”. Creati a Milano, gli abiti sono realizzati a mano a Dar es Salaam.
Anche in questo caso si parte da un’assenza: chi si occupa di moda in Tanzania torna in patria dopo gli studi all’estero, oppure impara a lavorare a macchina traendo ispirazione e informazioni da YouTube e da Instagram. Manca del tutto la filiera. La scommessa di Francesca De Gottardo, archeologa passata al marketing e poi alla comunicazione digitale dei musei, è costruire “una vera e propria industria della moda” in Tanzania. Endelea è partita da workshop in collaborazione con una scuola locale di moda, “Naledi Dream Center”, borse di studio, corsi e laboratori. Marchio di moda etica, Endelea fonda la propria azione sulle connessioni e sul valore delle persone. Disegna le collezioni in Italia e le realizza a mano in Tanzania, reinvestendo parte dei ricavi in programmi educativi per studenti di moda e design.
Dopo due anni Dar es Salaam si avvale di un team formato da dieci donne e due uomini, che attira sarti che desiderano strutturarsi solidamente, ex studenti che si sperimentano sugli accessori. Africani e italiani collaborano, fertilizzano le proprie capacità e competenze, scambiano idee e intuizioni, in un eco-sistema imprenditoriale la cui cifra è data dalla passione condivisa e dalla conoscenza tecnica. L’orizzonte dell’impresa risiede anche nella capacità di ridisegnare il proprio rapporto con lo spazio e con il tempo.
Così la racconta la sua stessa fondatrice, Francesca De Gottardo: “In Tanzania, la moda è ancora oggi un settore che esiste a malapena. Mancano il pensiero progettuale, il design, la storia della moda, l’utilizzo di carta modelli, la produzione su ampia scala, la comunicazione e il marketing. Gli abiti nel Paese vengono ad oggi realizzati a mano su commissione, ma soprattutto sono acquistati di seconda mano dall’Europa o importati dalla Cina.
L’idea di Endelea è di utilizzare una parte del ricavo del progetto per aiutare gli aspiranti designer in Tanzania a sviluppare quelle competenze che mancano per fare quel passo in più e far piano piano fiorire nel Paese una vera e propria industria della moda.
Quello che ci rende unici è che lavoriamo in Tanzania, non ci limitiamo a comprare delle stoffe e portarle in Italia, ma ci prendiamo il tempo di lavorarle fianco a fianco con i sarti africani per insegnare e imparare nello stesso tempo, e per realizzare qualcosa che parli davvero di Africa a chi lo indossa. Gli elementi per la rinascita dell’Africa sono già tutti nelle persone che ci vivono e hanno sogni e idee da realizzare, e quello che serve è solo una piccola spinta tecnica. La rivoluzione nasce dalla condivisione di passioni e nozioni, più che da assegni e donazioni, secondo la semplice filosofia not charity, just work cui Endelea aggiunge skills, la vera chiave per il cambiamento”.
L’impresa dei prossimi anni
Tre storie diverse con tanti elementi comuni, che dimostrano come un nuovo glossario che declini il paradigma economico, sociale e culturale che sta emergendo è ormai ineludibile e indifferibile. Non serve costruire nuovi modelli: l’impresa dei prossimi anni è sempre più lontana dalle standardizzazioni e cresce nella misura in cui è capace non soltanto di reagire flessibilmente a mutamenti repentini, ma soprattutto di anticipare la cornice delle dinamiche sociali e culturali, tenendo conto del fatto che sui bisogni prevalgono sempre di più i desideri.
Non è più un’anomalia. La società emergente è eterogenea, multidimensionale, complessa, eppure sofisticata e rapida. L’impresa dialoga con il proprio territorio e con la comunità che lo abita e lo frequenta; non è soltanto un’interprete del sentire locale, per molti versi ne costruisce l’identità e gli orientamenti insieme alla comunità stessa: basta trascorrere qualche ora a Ivrea per percepire con chiarezza quella weltanschauung (concezione del mondo, della vita e della posizione che in esso occupa l’uomo) unica che è stata generata e intensificata dal continuo scambio tra visioni e contenuti renitenti a ogni possibile definizione.
GOEL, Nanaaleo ed Endelea non rappresentano dei modelli (delle “buone pratiche” nell’euro gergo). Hanno aperto molte piste, rischiando di inciampare come tutti i veri esploratori, e scoprendo il prossimo passo nell’atto di compierlo. E dimostrano che per costruire un’impresa che adotti un approccio critico e dialoghi con la propria comunità è necessario coniugare la conoscenza dell’eco-sistema economico e sociale, la pazienza degli artigiani, l’intuizione degli artisti, l’importanza cruciale della condivisione e della partecipazione.
Sono esperienze nuove e con radici profonde, che partono da visioni altre della società e del suo funzionamento complessivo. Sono ancora le parole di Vincenzo Linarello a dare conto della loro dignità teorica: “Siamo ancora condizionati da veri e propri dogmi, come quello secondo cui la democrazia coincide con il suffragio universale. Noi riteniamo che al suffragio universale, al diritto di voto, debbano necessariamente aggiungersi partecipazione ed equità. La nostra è una storia di partecipazione fondata sul concetto di derivazione cristiana, quello della sussidiarietà: non è lecito fare e decidere più in alto quello che è possibile fare e decidere più in basso. In sostanza, non è lecito fare e decidere a livello di quartiere cosa è possibile fare e decidere in famiglia, non è lecito fare e decidere a livello di comune cosa è possibile fare e decidere a livello di quartiere. Riteniamo perciò che lo Stato non sia un’espressione della società civile, ma sia esso stesso società civile. Ne risulta investito il concetto stesso di istituzioni. Non dobbiamo più parlare di sacralità delle istituzioni, ma della loro funzionalità. Allo stesso tempo, in un clima di corresponsabilità, l’impresa, essendo composta da cittadini, non perde il suo dovere di essere Stato. Ha un ruolo preciso nella catena della sussidiarietà. Non dev’essere eccezionale, ma normale, l’impresa che accetta di essere responsabile e di assolvere a una funzione pubblica. Considerando l’intera società da questa prospettiva, ci accorgiamo che cade la distinzione netta e insuperabile di pubblico e privato. La rivoluzione è culturale e deve avvenire prima di tutto dentro alle nostre teste”.