Icona e ComoNExT
Al di là del piacere di potersi confrontare con una persona della sua esperienza, animata da un’insolita e magnetica mescolanza di determinazione e garbo, il motivo di questo incontro sta nel fatto che Icona e ComoNExT hanno stipulato un accordo che ha come obbiettivo l’insediamento nelle Officine ICO di Ivrea di una nuova comunità di imprese. Non si ha timore di aver scomodato con troppa leggerezza la parola comunità, dal momento che è questa la chiave di volta per comprendere la differenza tra l’esperienza lombarda di cui sopra e i poli di innovazione e i parchi scientifici che si trovano in diverse aree del Paese. Proprio da questa considerazione ha preso spunto la nostra prima domanda.
A Lomazzo avete messo a punto negli anni un modello virtuoso per lo sviluppo dal basso dei territori attraverso l’innovazione. Stefano, puoi dirci qual è la specificità del modello che ha dato così tanti frutti e che ora verrà innestato anche a Ivrea?
La specificità di ComoNExT, ciò che la rende un’esperienza diversa dalle altre, è tutta nella volontà di creare davvero un sistema, una comunità aperta fra imprese che aderiscono ai nostri principi. Il modo più efficace che abbiamo inventato per comunicare questo nostro metodo è lo slogan delle cosiddette 4C: “da condominio a comunità, da calamita a catapulta”. Cosa significa? Non essere più soltanto attrattori verso l’interno, ma diventare sorgente d’innovazione verso l’esterno. Fare capire i vantaggi agli innovatori del condividere i propri saperi con gli altri, per proiettarsi insieme, dunque più forti, verso l’esterno. Vantaggi che sono evidenti anche per il territorio. Proviamo a semplificare. Si parla spesso di economia circolare. Noi cerchiamo di farlo in modo più ampio, comprendendo in questo movimento non solo i materiali, ma anche i saperi e le culture dell’innovazione. In questo circolare ininterrotto ci sforziamo di integrare società, intermediari, enti pubblici, banche, università, aziende, cooperative, mettendo letteralmente le persone al centro. Creare sinergie trasversali trovando punti di contatto ed esaltando la convenienza del condividere.
Cosa significa persona al centro? È questa la “Next Innovation”?
Esatto. “Next Innovation” significa mappare le competenze di tutte le persone, rilevando competenze, sensibilità, abilità anche al di là di quelle che le stesse aziende per le quali lavorano hanno già rilevato e archiviato, per ricomporre continuamente nuclei di lavoro trasversali in assetto variabile. Per farti un esempio, ci può essere un ingegnere che nel corso della sua vita ha conseguito un diploma al conservatorio di musica. Questa è una cosa che non troviamo nel suo prospetto, è una cosa che l’azienda per cui lavora dimentica (se mai è venuta a saperla) e che a noi invece interessa moltissimo. Potrà tornare utile un domani per un lavoro in cui questa competenza e questa sensibilità saranno richieste. Ibridare significa anche questo, partire dalle persone per considerarle in modo meno scisso. Certo è un processo che richiede molta partecipazione autentica. Ogni volta che un’azienda si propone per entrare nel nostro sistema, una commissione ne valuta sia il grado d’innovazione che la disponibilità a entrare davvero in un percorso di condivisione. Noi non diamo spazi in affitto ma chiediamo — e così faremo a Ivrea — di mettere a disposizione del sistema capacità e competenze. Se anche si presentasse l’azienda più innovativa con l’intenzione di allocarsi, ma non quella di sposare i nostri principi di collaborazione, non la faremmo entrare. Proprio per non trasformare la struttura in un condominio invece che in una comunità, in una calamita invece che in una catapulta.
Hai rilevato qualche criticità nel luogo?
Certo non presenta la stessa densità di imprese che si trova tutto attorno a Milano, ma c’è qualcos’altro. Anche a Lomazzo la nostra poteva apparire all’inizio come una sfida difficile. Ci è servito per capire che se ci sono valori, aspettative e competenze veramente condivise dagli stakeholder tutto è possibile. Il nome di Ivrea è attrattivo in Italia e all’estero, ha una sua forza ancora potente. Per questo la solidità della narrazione è importante quanto quella del progetto. Dovremo far capire che far parte della nostra comunità vorrà dire tornare a far parte sia di un territorio che di un orizzonte più ampio. Olivetti stesso viveva qui, progettava qui ma operava nel mondo, per il mondo. Ivrea era, e sarebbe bello tornasse ad essere, un porto di mare. I tanti poli italiani che stanno nascendo sotto il nostro impulso allargano la territorialità, anche in modo virtuale, con un melting pot delle culture tecnologiche dei territori messe in condivisione. Tornando alle criticità, sarebbe utilissimo migliorare il servizio ferroviario. Ma le vie autostradali e la prossimità con gli aeroporti sono più che accettabili.
Quali aspettative, possibilità, emozioni genera in voi la prospettiva di lavorare per un luogo ricco di storia e carisma come le Officine ICO di Ivrea?
A Ivrea meglio che altrove si capisce quanto può essere importante il tema dei luoghi. Il genius loci è da considerarsi come un insieme di testimoni che un territorio e la sua storia ci consegnano per farci raccogliere le sfide future. La vita dei luoghi sta in questo continuo passaggio. Difficilmente le cose accadono per caso: se la stessa Olivetti è nata e cresciuta a Ivrea significa che vi ha trovato un territorio che poteva offrire molto in termini di capacità, valori, disponibilità, intelligenze. Il genius loci, appunto. Una cosa che si può assopire, ma che difficilmente muore. Noi dobbiamo contribuire a risvegliarla. A Como, per esempio, ci siamo insediati in un’industria che aveva al suo interno un villaggio operaio, scuole, convitto, stalla, una vera e propria micro-società da sviluppare. È un testimone che abbiamo raccolto, che ha nutrito il nostro modello di oggi. Allo stesso modo, per sviluppare al meglio il nostro lavoro qui a Ivrea dobbiamo valorizzare l’idea di profitto condiviso. Per dare vita a un modello di economia di questo tipo, cioè civile, Ivrea è il luogo iconico e simbolico più appropriato. Per noi è importante continuare questo esperimento proprio qui. A volte i simboli aiutano moltissimo.
Caratteristiche dell’insediamento a Ivrea, spazi, numeri?
A Ivrea stiamo lavorando su una prima ipotesi di occupazione di 15–16 mila metri quadrati, sperando un domani di poter occupare anche uno spazio più grande per insediare altre aziende che aderiscano ai nostri principi. L’ideale per sostenere il nostro modello è avere tante piccole medie imprese che esprimano capacità diverse fra loro. Imprese che, tutte insieme, diventino qualcosa di più grande. Le acciughe, insomma, che fanno il pallone. Perché è più facile parlare con un mondo agile e variopinto che ha bisogno di te, piuttosto che con grandi organismi che hanno all’interno una loro burocrazia e raramente così tante competenze eterogenee. Per esempio, ad oggi a Como in 21 mila metri quadrati si sono insediate 130 aziende che lavorano insieme. Il loro know-how permette, attraverso la creazione di gruppi di progetto ad assetto variabile, di generare l’innovazione richiesta da altre imprese e altri soggetti del territorio: attori economici, istituzionali, educativi che ampliano il network a livello nazionale e con collegamenti internazionali. È appunto il modello di trasferimento tecnologico che chiamiamo “NExT Innovation”.
Attraverso l’accordo con Icona e la partecipazione alla vita associativa di Quinto Ampliamento avete già intrecciato relazioni forti con soggetti protagonisti della riqualificazione delle ICO. Quinto Ampliamento si interroga, fra le altre cose, su quale ruolo può avere la cultura in questo genere di processi. Un parere personale?
La cultura è una funzione propria dell’uomo, imprescindibile. Ma cos’è veramente? Credo che alla fine tutto possa ridursi a questo, a un atteggiamento di fondo: farsi delle domande. Di conseguenza, il pericolo culturale più grande è quello di smettere di essere curiosi. Specie nel mondo dell’innovazione, dove tutto è un problema di cultura. L’imprenditore che innova è un imprenditore in grado di fare sempre un salto culturale e lo stesso vale per l’impresa nel suo complesso. L’immaginario va stimolato, coltivato, allenato. Il sapere dovrebbe attraversare un luogo di lavoro in mille modi diversi. Se alla parola innovazione non vedi niente, non vedi immagini, non hai nella mente un film tutto tuo, hai un problema culturale. Intendo in quanto innovatore, naturalmente. Mi viene sempre come esempio la canzone di Billy Joel New York State of Mind, perché ci sono dentro le parole giuste per spiegare questo genere di cose. Si parla di una città come condizione mentale, qualcosa che ti appartiene e a cui appartieni, in cui sei sempre immerso, da cui non esci davvero nemmeno quando ti trovi lontano. Ecco cos’è l’innovazione: una condizione mentale. Mi convince il concetto di cultura come infrastruttura che è uscito dal lavoro organizzato in tavoli durante l’ultima edizione di Quinto Ampliamento. Ma purtroppo nella società di oggi vedo anche un pericolo, sinceramente. La cultura è talmente bistrattata che provare a farla entrare in nuove forme nei luoghi di lavoro può esporci all’incomprensione. Non è detto che sia cosa richiesta, né gradita. Bisogna essere intelligenti, attenti, non forzare la mano.
Carmelo Bene parlava di cultura come pericolo. Insisteva sull’etimo: cultura non significa solo “coltivare”, ma anche “colonizzare”. Insomma, bisogna evitare di imporre un copione, assegnare le parti. Forse si tratta di fare l’esatto contrario. O almeno provarci.
Bisogna fare attenzione alla forma, non solo alla sostanza. Servono grazia, gentilezza, altruismo, garbo. Sono parole piene di senso anche nel mondo della produzione. Allo stesso tempo, per costruire una comunità serve anche dirsi le cose in modo chiaro e netto. Serve il contraddittorio, la libertà di confronto. Ed ecco il valore della cultura: il modello di sviluppo e innovazione che proponiamo funziona fra persone che si parlano, si capiscono e si rispettano. Perché tutto si basa su due concetti chiave: fiducia e regole. Non avere preconcetti e sospetti e muoversi in un quadro descritto da poche ma chiarissime norme.
Infine, sulla base della tua lunga esperienza, ti chiediamo di esprimere un suggerimento, qualcosa da tener sempre presente nel lungo lavoro che abbiamo davanti.
Quando si vuole sviluppare un progetto di territorio è fondamentale non lasciar fuori nessuno. Non far sentire nessuno escluso in partenza. Altrimenti non c’è futuro. Gli stakeholder locali sono fondamentali per lo sviluppo armonico di un progetto che vuole creare valore sul territorio e portare il territorio nel mondo. Per esempio, qui a Ivrea sta nascendo, contestualmente al nostro, un progetto importante, denominato ICO Valley; si svilupperà nella stessa via in cui noi opereremo. Il dialogo con ICO Valley è iniziato e lo ritengo di fondamentale importanza, perché possiamo e dobbiamo essere gli uni risorse per gli altri: non solo per non sovrapporci (anche se, considerati gli ambiti di lavoro, lo vedo un rischio veramente risibile), ma soprattutto per avvantaggiarci reciprocamente. Cosa non difficile, fra l’altro, considerando che entrambi i processi sono all’inizio. E poi il nostro progetto non va su un territorio a fare cose che stanno già facendo altri, ma vuole proporre un modello di scala per fare meglio e insieme ciò che spesso si fa già.