L’inclusione di un pubblico nuovo
Incontro Stefano Musso in un bar del centro. Per essere inizio febbraio fa decisamente troppo caldo. Fuori ci sono dei tavolini, scegliamo di entrare per ripararci dal rumore del traffico di corso Nigra e dal sole battente. Ci sediamo uno di fronte all’altro e non sappiamo bene da che parte incominciare. Da qualche anno fotografo i concerti dell’associazione Il Timbro, di cui Stefano è fondatore e presidente. La prima volta che l’ho incontrato e fotografato è stata per una delle rare occasioni in cui, a Ivrea, lui va in scena come musicista. Era il 7 settembre del 2019, suonava Beethoven e Prokofiev insieme a Guillermo Pastrana per il concerto di apertura della rassegna I colori di settembre al Salone dei 2000.
Solitamente io e Stefano ci incontriamo nella frenesia che precede un concerto, ci scambiamo brevi parole per impostare il lavoro, poi lui corre dietro ai suoi impegni e io a cercare le postazioni migliori da cui scattare. Ma oggi, finalmente, ci prendiamo del tempo per parlare con calma di quello che fa. Passare dall’altra parte è l’espressione che meglio di tutte descrive il suo lavoro: è pianista per concerti da solo e di musica da camera e accompagnamento e, parallelamente, organizza concerti. Un continuo e costante spostamento di prospettiva, che gli permette sia di avere un punto di vista privilegiato su quanto accade in platea, sia uno sguardo autorevole sugli artisti che solcano di volta in volta il palcoscenico.
Lo scopo dell’Associazione Il Timbro è chiaro, a partire dalla rassegna più popolare e longeva: Gli accordi rivelati. Un nome che rivela immediatamente l’intento divulgativo e il riguardo verso l’inclusione di un pubblico nuovo, sovente non abituato alla musica classica. Dall’autunno del 2015 la rassegna si innesta nel programma del teatro Giacosa, proponendo con cadenza mensile concerti di musica da camera interpretati da talenti di livello internazionale. Solo per citarne alcuni: Gidon Kremer, Aleksandar Madžar, Michele Marelli, il Trio Sitkovetsky, il Trio Gaspard, Filippo Gamba. Prima di ogni concerto c’è un aperitivo e, prima dell’aperitivo, una lezione a cura di Antonio Valentino: direttore artistico dell’Unione Musicale di Torino, professore di musica da camera al conservatorio di Torino e pianista nel Trio Debussy. La formula particolare rende la rassegna una vera e propria guida all’ascolto, che mira a fornire al pubblico minimi elementi di comprensione delle opere che verranno interpretate nel corso del concerto. Il maestro Valentino avvicina il pubblico alla musica servendosi degli stessi musicisti – che salgono sul palco senza grande cerimoniosità, vestiti più o meno come sono arrivati a teatro – ai quali, a supporto del suo discorso, chiede di suonare alcune parti dei brani in programma. Un format che, di suo, tende ad abbattere le barriere culturali che possono, talvolta, creare una sorta di diffidenza verso la musica classica, soprattutto in provincia, dove le opportunità per avvicinarsi a tale contesto sono più limitate.
Passare dall’altra parte significa anche andare controcorrente, in un periodo in cui è sicuramente più facile immaginarsi imprenditori (culturali, e non) lontano da Ivrea. Perché, invece, Gli accordi rivelati, I colori di settembre e le altre iniziative de Il Timbro sono nate e continuano a stare qui?
«Un po’ perché a Torino ci sono già eventi simili, un po’ per la voglia di rischiare. Un po’ perché ci si abitua ad accontentarsi di risultati che possono sembrare piccoli, ma in realtà piccoli non sono. Avvicinare anche solo una persona alla musica classica sembra, dal punto di vista esterno, del tutto insignificante. Però, in fondo, non lo è. Negli ultimi tempi, la bontà di un’attività viene definita dalla sua visibilità. La questione, però, non è mai quanta gente c’era un concerto. Ma come è uscita da lì rispetto a come stava prima. La chiave sta in quello. Ivrea, poi, è tutto meno che una città morta».
In che senso?
«Nel senso che è una città ricchissima di attività per numero di abitanti. Persino troppo ricca, e tende a fare molta fatica a distinguere tra quelle che sono le attività ricreative rispetto a quelle costruttive, tra quelle amatoriali e quelle professionali. Per fare degli esempi: ci sono un’orchestra, un teatro attivo con una stagione importante, un Carnevale di rilievo internazionale, due cinema aperti, una biblioteca enorme, un intero complesso industriale con valore storico e artistico elevatissimo. È una città incredibile, dal punto di vista delle risorse. Trovo che ogni tanto, proprio in virtù della quantità di cose che ha, difetti nell’identificazione di quelle che possano essere le attività chiave, non riuscendo, di conseguenza, a lavorare in prospettiva. In una città piccola da qualche parte devi investire, e bisognerebbe essere più selettivi».
C’è qualcosa di labile nel confine che (non) si crea tra palco e platea nei concerti che organizzi. Spesso gli spazi stessi inducono il pubblico a fondersi con gli artisti, come accade nei luoghi talvolta angusti che caratterizzano la rassegna I colori di Settembre (uno su tutti, la chiesa romanica di Bollengo), spesso per via della precisa intenzione di abbattere l’ingessatura e l’aura di superbia che generalmente caratterizza i contesti in cui si suona musica classica.
«Il nostro obiettivo è togliere un po’ di patina di vecchio per portare la musica classica in luoghi dove, di per sé, magari non sarebbe arrivata. Per quanto Gli Accordi Rivelati siano nati da una iniziativa personale, ho sempre voluto mantenere alto il livello, scegliendo sempre i musicisti da invitare in base alle loro capacità, e non per via dei miei interessi, o del mio tornaconto personale. L’obiettivo è sempre stato quello di andare incontro al pubblico fornendo informazioni per comprendere i concerti, non abbassando la qualità della proposta».
L’idea di allestire un format di questo tipo avvicina fortemente il pubblico a un genere musicale solitamente considerato elitario ed esclusivo.
«Esatto. Ed è un tipo di condivisione che richiede piena disponibilità da parte di chi suona e di chi ascolta. I nostri contenuti della rassegna non calano dall’alto: nostra precisa intenzione è collocarci a metà strada, portando il palco a comunicare con il pubblico, e viceversa. Se la musica classica talvolta crea divisione è per via di una cattiva comprensione della funzione della musica stessa e del ruolo dell’ascoltatore. E se il mondo della musica classica è in una situazione così complicata è anche perché spesso segue formalità che non hanno relazioni con la sostanza».
A cosa ti riferisci?
«Per esempio, in teatro, per me, c’è una sola regola, quella del silenzio. Questo ha ovviamente una relazione forte con la sostanza. La questione di come stai vestito no. Eppure, spesso, anche il modo in cui ci si veste per andare a teatro può creare divisione. Il lavoro della musica classica è un lavoro di dettagli, di piccole cose. Il musicista passa tutta la propria vita a lavorare sull’ascolto e a relazionarsi con l’effetto sonoro di quello che produce. Il silenzio è davvero l’unica cosa importante».
E per quanto riguarda il pubblico?
«Dal punto di vista del pubblico, il concetto è lo stesso. Sono persone che dedicano il proprio tempo per venire ad ascoltare quello che il musicista ha da dire. Quindi il rispetto del silenzio è sia verso chi suona, sia per chi sta affianco e ascolta. Ogni tipo di interferenza mette in difficoltà un pubblico che per sua natura sta già facendo degli sforzi di concentrazione e di ascolto».
In questo senso, quale credi che sia, oggi, la funzione della musica classica?
«Uno dei concetti che secondo me ci definiscono meglio, è l’impegno che mettiamo nelle cose che scegliamo di fare. Quando io penso alla funzione della musica classica — ovvero a cosa serva andare a sentire della musica complessa che richiede attenzione esclusiva — penso che sia quella di aggiungere valore a noi in quanto individui. Non è certo un arricchimento immediato. Siamo noi che — decidendo di fare attenzione e impegnandoci verso cose che non sono immediate, ma sono comunque costruite con una logica, con un senso, con un pensiero — diamo valore a quello che facciamo. È questo che ci fa crescere. In questo senso, la musica classica è uno dei tanti modi per poter crescere attraverso l’energia che dedichiamo verso qualcosa che non è immediato».