Mavel
MAVEL. Il confine tra gioco e impresa.

Persone che, partendo da zero e con una buona dose di incoscienza, hanno portato Mavel a occupare, con le sue nuove linee, circa 4.500 metri di queste officine.

La capacità di giocare apre le porte del mondo

Mavel ha una storia talmente particolare che la si potrebbe raccontare in molti modi e risulterebbe sempre interessante. Si potrebbe raccontare la storia di un’impresa minuscola che in poco tempo si ingrandisce, enfatizzando l’elemento dell’intraprendenza. Si potrebbe raccontare la storia di un rovello che diventa innovazione, enfatizzando l’elemento della genialità. Si potrebbe, ovviamente, parlare dei suoi motori elettrici, enfatizzando l’elemento della sostenibilità ambientale. Si potrebbe, persino, raccontare di come la capacità di giocare, intesa nel suo senso più alto, possa aprire le porte del mondo, enfatizzando l’elemento del rocambolesco.

Sceglieremo di percorrere quest’ultima strada, la meno scontata, nell’idea che sia proprio il fondatore Davide Bettoni a suggerircela, iniziando a raccontarci i primi successi dell’azienda con toni inaspettatamente avventurosi, divertenti, a tratti esilaranti. Gli inizi di Mavel sono costellati da un insieme tanto inverosimile di aneddoti da lasciarci a bocca aperta. Tutto ci aspettavamo, tranne che di divertirci così tanto. Soprattutto, non ci aspettavamo che divertimento e ammirazione potessero viaggiare in modo così naturale sulla medesima frequenza: di parola in parola, infatti, ci è sempre più chiaro che siamo di fronte a persone con capacità a dir poco particolari.

Persone che, partendo da zero e con una buona dose di incoscienza, hanno portato Mavel fino a qui: fino, cioè, a progettare e costruire motori elettrici per il settore dell’aeronautica, delle auto, delle moto; a lavorare per committenti internazionali; a contare circa 80 dipendenti in Italia e altrettanti tra Cina e Inghilterra; ad aver depositato 140 brevetti; ad essere a un passo dall’entrare in borsa; ad occupare, con le sue nuove linee, circa 4.500 metri di queste officine.

Cosa intendiamo per capacità di giocare? Non il comune mettersi in gioco con il quale si indica di solito la disponibilità di alcune persone a intraprendere. E nemmeno, ancora meno, la capacità di scherzare, affrontare le sfide della professione con il sorriso sulle labbra. Per capacità di giocare intendiamo qualcosa di più grande: la confidenza con il gioco che hanno i bambini nella loro onnipotenza e anche – come diceva Carmelo Bene – “gli adulti che non si sono adulterati”. Il gioco, dunque, come contrario dello scherzo, come condizione, come attitudine, come vocazione, come disponibilità a dilapidare energie che paradossalmente, proprio perchè dilapidate così, giocando, si rigenerano continuamente. Intendiamo persino, e seriamente, il gioco come reputazione.

Davide Bettoni - Mavel

Sandra Elia e Davide Bettoni – Ph Davide Aichino

Davide, da dove vuoi cominciare?

«Beh, la nostra storia è piena di aneddoti che visti a distanza di tempo sono davvero divertenti. Sembrano incredibili ma sono veri, li racconto sempre volentieri. Tanto per cominciare, non saremmo qui oggi se nel 2010 non fosse eruttato un vulcano in Islanda!»

Scusa, Davide, in che senso?

«Si, si, è proprio così. Faccio un passo indietro. Mavel – che vuol dire “macchine veloci” – produce motori elettrici. L’abbiamo fondata nel 1999 Sandra ed io a Pont Saint Martin e non avevamo mai fatto un motore in vita nostra. E così gli altri primi compagni di viaggio. Internet c’era e non c’era, era difficile documentarsi, così abbiamo comprato motori di altri per vedere com’erano fatti e, piano piano, abbiamo cominciato a produrre i nostri. Fino a quando è avvenuto un incontro decisivo: cercavamo qualcuno che tranciasse il lamierino e abbiamo scoperto che c’era un’azienda a Serravalle Scrivia che faceva al caso nostro. Li abbiamo conosciuti ma, mentre raccontavamo loro come avremmo voluto costruire i nostri nuovi motori, abbiamo notato nei loro volti, per così dire, una certa perplessità. Noi eravamo davvero alle prime armi, e si vedeva. “Facciamo così – ci dissero – vi segnaliamo volentieri una persona speciale, un uomo che nella sua vita ha fatto sempre motori”. Perfetto! Eravamo letteralmente nelle sua mani ancora prima di conoscerlo. Così siamo andati a trovare questo signore, Renato Biglino, che non potrà mai mancare nei nostri pensieri: un giovanotto di circa ottant’anni con l’abitudine di essere estremamente schietto. Quando gli raccontammo la nostra ambizione, costruire un motore che facesse 200.000 giri al minuto, ci guardò dritto negli occhi e ci disse che per noi era una cosa impossibile. Poi aggiunse: “Comunque, se proprio volete, vi posso aiutare. Fa un milione al giorno”. Noi rimanemmo di stucco, era una cifra che proprio non ci potevamo permettere. “Però io il sabato e la domenica mi annoio, se venite il sabato e la domenica è gratis”. Con il suo modo apparentemente burbero, aveva messo subito la nostra collaborazione sui binari della passione, della sfida e del gioco. Era una cosa contagiosa. Così sono cominciate le nostre innumerevoli gite domenicali sopra a Genova, dove c’era anche un’ottima osteria, e univamo l’utile al dilettevole. Biglino ci ha insegnato letteralmente tutto. Lavorava solo con quelli che gli andavano a genio, divideva le persone tra intelligenti e non intelligenti, e amen. Per fortuna noi gli piacevamo e così, un poco alla volta, abbiamo imparato a costruire questi motori da 200.000 giri al minuto e siamo arrivati fino a 300.000».

È una storia bellissima, ma… il vulcano islandese?

«Ci arrivo. A quel punto Mavel era sbocciata ma rimaneva un’azienda molto piccola, produceva motori da 2 o 3 kW per il mercato cinese dei circuiti stampati. Un mercato che oscilla continuamente tra sovrapproduzione e sottoproduzione: così, nel 2006-2007, ci siamo trovati in un una situazione difficile, in cui sembrava che quello che producevamo non servisse più. Un giorno, siamo venuti a sapere da Biglino stesso che Finmeccanica aveva ricevuto un’ordine di 300 siluri, ma non trovava chi gli producesse i motori. Stava chiedendo a diverse realtà, ovviamente più grandi di noi, che però riufiutavano la commessa. Stiamo parlando di motori da 60-70 kW, mentre noi li facevamo da 2 o 3. Siamo capaci? Non siamo capaci? Nel dubbio, chiesi e ottenni un incontro con questi signori. Per prima cosa mi domandarono da quanti kW era il motore più grande che avessimo mai fatto. Io dissi: 5! In quel momento Mavel era una cosa minuscola: 7 persone con un fatturato di circa 300.000 euro. La commessa in questione, per capirci, valeva circa 2 milioni e mezzo. Tra me e me pensavo: “di cosa stiamo parlando? Sono dieci anni del nostro fatturato!” Però non mollavo. Il responsabile degli acquisti mi fissava in silenzio, poi a un certo punto mi disse: “Insomma, ma io cosa racconto all’amministratore? Voi dite che siete capaci, ma io ho solo la vostra parola”. Per uscire da quella situazione di stallo gli proposi di assicurarci un certo budget – che per loro era piccolo, ma per noi era decisamente importante – e tre o quattro mesi di tempo per arrivare con questo motore: “Se ce la facciamo prendiamo il lavoro, altrimenti pazienza”. Beh, ha accettato! Abbiamo passato tre o quattro mesi che non vi dico, praticamente vivevamo insieme giorno e notte nella nostra officina di Pont. Più di una volta abbiamo tolto la luce alla città! Non avevamo abbastanza energia per provare il motore, avevamo un contratto da 20 kW e il motore ne usava 50! Dovevamo provare più veloce che potevamo, prima che saltasse il contatore. Ogni tanto, invece che saltare il contatore, saltava direttamente tutta la luce fino a Pont! Però intanto imparavamo, imparavamo, avevamo dentro una specie di febbre, di euforia, lavoravamo con un’entusiasmo incredibile».

Però, alla fine, ce l’avete fatta…

«Si, ma aspetta! Nel frattempo ci arrivò un’altra opportunità: produrre il motore per il primo volo a idrogeno, su incarico del Politecnico di Torino e di altri importanti partner europei. Questo volo inaugurale, letteralmente storico, si sarebbe tenuto al campo volo di Parma. Per la nostra azienda era l’occasione della vita, così ci siamo divisi: alcuni di noi lavoravano in vasca dove si provavano i siluri di Finmeccanica, altri di noi lavoravano a Pont su questo motore propulso a idrogeno da 60 kW. Sfide come queste per noi erano entusiasmanti, ma presentavano difficoltà enormi. Avevamo una fortuna: il gruppo di ragazzi che sono stati con noi dall’inizio, veramente geniali. Il lavoro procedeva spedito, ogni problema che si presentava era sempre un fatto nuovo e lo risolvevamo a modo nostro, cioè inventando. Funzionava tutto. Ma a tre giorni da questo benedetto volo successe l’imprevedibile: avevamo invitato a Pont il professor Giulio Romeo del Politecnico di Torino – oggi uno dei nostri migliori amici – per l’ultimo collaudo certificato. Mi rivedo la scena: siamo tutti insieme in officina, avviamo il motore e… beh, esplode! Schizza olio caldo dappertutto, anche sul bel maglioncino di cachemire del professore. Una puzza terribile, fumo, noi ammutoliti, incapaci di reagire, Sandra che salta addosso al professore con un il sorriso della disperazione e se lo porta via sottobraccio, scusandosi, cercando di ripulirlo, minimizzando una cosa che era impossibile da minimizzare! C’era una puzza terribile, fumo dappertutto! Oggi ci rido sopra ma, professionalmente parlando, quella era una tragedia. Ci avevamo investito letteralmente tutto, non avevamo più niente! In un lampo di lucidità, pensai che in fondo era andata bene così: la settimana dopo quel motore avrebbe dovuto far volare un aereo! Fatto sta che bisognava trovare il coraggio di comunicare a tutti i partner del progetto europeo che il motore non c’era più. Mi dissi “Ok, domani mattina la prima cosa che faccio è chiamare”. Il giorno dopo ero lì con il telefono in mano e, quando avevo quasi trovato la forza di fare il numero, fu il capo progetto a chiamare me: “Ci spiace tantissimo, non so se avere già sentito i telegiornali, nella notte un vulcano in Islanda è eruttato, ci sono ceneri nel cielo di mezza Europa e i voli internazionali sono tutti bloccati! Siamo costretti, nostro malgrado, a rinviare tutto di un mese!” Ed eccoci alla morale: senza quel vulcano non ce l’avremmo mai fatta».

Beh, complimenti, questa è una storia davvero incredibile.

«Si, ma aspetta, aspetta ancora un attimo, non è mica finita! Abbiamo riparato il motore e siamo partiti per il volo inaugurale di Parma. C’erano i capi progetto dell’università, i partner europei in pompa magna, le autorità, la stampa, la sicurezza, insomma tutto quello che serviva. Quando siamo arrivati al dunque, il pilota, Marco – che aveva un’aria spregiudicata, non so se aveva letto qualcosa di strano nei nostri occhi – ci ha avvicinato e ci ha detto: “Tranquilli, non vi preoccupate! Una volta arrivato a 700 metri d’altitudine io sono a posto! Qualsiasi cosa succeda, da lassù posso planare!” Ci diede la mano e salì sul Gihlavan a due posti, con praticamente 6 chili di idrogeno sulla schiena, e iniziò il rullaggio. Poco più indietro faceva lo stesso un Cesna a motore termico, sul quale c’era anche il professor Romeo, sempre lui, per certificare da vicino il primo volo al mondo con il motore propulso a fuel-cell. Noi eravamo chiusi in una roulotte e collegati via radio. Gli aerei si erano appena alzati in volo quando ci ha chiamati il pilota del primo aereo: “Si è accesa una spia rossa, la pila a combustibile si è spenta, sono a 350 metri!” Come è possibile? Eravamo completamente paralizzati! Non posso descrivervi il panico che ci aveva preso. Denny, geniale finché si vuole ma pur sempre il più giovane di noi, non so come, e forse non lo sa neanche lui, mantenne il sangue freddo e cominciò a dare al pilota tutte le indicazioni del caso. Con una calma incredibile, spiegò al pilota come riaccendere il motore, utilizzando una batteria tampone che avevamo installato per ogni evenienza. L’aereo si riprese, guadagnò quota, fece tutto il volo senza problemi. Cos’era successo? Il motore aveva sempre funzionato perfettamente, e lo fece anche quella volta. Ma l’aereo aveva attraversato una nuvola, era cambiata la concentrazione di ossigeno, quindi la pila a combustibile, che l’ossigeno lo pescava dall’esterno, si era fermata. I due aerei atterrarono tra gli applausi, uno dopo l’altro, e fu un successone. Il professor Romeo, che via radio aveva ascoltato tutto, scese dal Cesna, si guardò intorno, ci vide, fece due passi verso di noi, impallidì e cadde a terra svenuto! A pensarci adesso fa davvero ridere, ma fu un’altro spavento! Nel giro di un mese quel motore lo aveva sfinito… Non ha retto! Mentre l’ambulanza lo portava via per gli accertamenti, arrivò il commissario dell’ente della certificazione aeronautica e si complimentò con noi: “L’idea della batteria tampone – disse – è geniale. Li farò mettere su tutti gli aerei!” Insomma, avevamo tagliato un altro traguardo».

Hai reso perfettamente l’idea di come quello fosse un territorio di frontiera, sconosciuto. Ma di lì in avanti di cose ne sono successe tante per arrivare dove siete oggi. Tutte positive, immagino.

«Si, certo. Oggi lavoriamo stabilmente con delle realtà internazionali su dei progetti che in quegli anni, per le nostre capacità e le nostre dimensioni, sarebbero stati impensabili. A quel tempo non c’era letteratura, non c’era niente, il settore dei motori elettrici applicato a certi ambiti dell’industria era talmente all’avanguardia che chi se ne occupava o procedeva così – rischiando, inventando, sbagliando, correggendo – o si tirava indietro, come in effetti facevano tanti imprenditori, diciamo così, più sani di mente. Ma sono proprio certi scenari che ti costringono a diventare bravo: se lavori con l’industria l’aeronautica, per esempio, devi produrre la documentazione come vogliono loro, secondo uno standard particolare che è al livello più alto. Siamo stati l’azienda più piccola tra i fornitori strategici di Finmeccanica, l’esasperazione tecnica che richiedeva era tale che davvero nessuno accettava la sfida. Sono stati passaggi fondamentali per la crescita dell’azienda».

Puoi descriverci brevemente la Mavel di oggi?

«Mavel produce motori elettrici ma senza perdere di vista l’energia del prossimo futuro, l’idrogeno. Dal 2015, con competenze oramai strutturate, ci siamo detti che era ora di pensare alle auto. Anche qui, la prima cosa che ci hanno detto è stata: “voi fare i motori per le auto? Con le vostre dimensioni è impossibile, lasciate stare”. All’inizio facevamo solo prototipi, progettazione e realizzazione, oggi facciamo anche piccole produzioni, qui a Ivrea. Oggi realizziamo motori per automobili e motocicli, per la MotoE. Abbiamo 140 brevetti. Cerchiamo sempre di essere innovatori, di andare al limite delle tecnologie. Nel 2028 prevediamo di entrare in borsa. In questo momento siamo circa 190 persone: circa 70 in Italia, più una decina di consulenti esterni, circa 120 tra Cina e Inghilterra. Il nostro mercato è quello europeo e cinese. Viviamo in un mondo al fotofinish, dove tutto si gioca sul filo. Abbiamo anche fatto il primo motore elettrico sperimentale, per la Formula 1: la federazione automobilistica da Parigi ci ha chiesto il prototipo, poi l’Istituto Francese del Petrolio ha investito il 25% in Mavel, grazie a questo salto di paradigma abbiamo conosciuto Burkhard Goeschel, un altro uomo straordinario che ci ha aiutato moltissimo. Era il Presidente nella filiera delle energie rinnovabili nella FIA – l’inventore della Formula E, per capirci – ed è entrato nel nostro consiglio di amministrazione. Era anche nel board di BMW, quindi abbiamo iniziato a essere conosciuti, anche se considerati sempre un po’ naif, a dire il vero».

Sono cambiate tanto le cose?

«Certo, con le dimensioni maggiori deve crescere anche l’organizzazione aziendale, ed è per questo che adesso abbiamo una struttura di professionisti. Anche l’attitudine è diversa, ovviamente, rispetto alle origini: ma vogliamo a tutti i costi tenere vivo il nostro spirito, anche nel diventare impresa con tutti i crismi. Gli strategici sono gli stessi che erano con me dall’inizio: sono trent’anni che insieme ne combiniamo di tutti i colori, e questa è la nostra storia. Una storia che mi fa sempre ridere e allo stesso tempo mi riempie di orgoglio».

Come ultima cosa, ti chiedo di raccontarmi qualcosa sulla scelta di Ivrea.

«Siamo venuti a Ivrea perché siamo attratti da questo magnete, non certamente perché è più comodo dal punto di vista logistico. Ma nemmeno per rivestirci, per così dire, di un po’ di quel prestigio che ancora oggi è riconosciuto a Olivetti. Abbiamo rispetto per tutte le cose che sono capitate qui dentro, per il carisma che si respira, ma siamo qui per dare il nostro contributo attivamente, piccolo o grande che sia. Nella mia visione, cooperiamo tutti quanti per dare una seconda vita a questi spazi. Siamo cooperatori, non condomini. Non mi sento uno che si insedia, non mi sento uno che è insediato da qualcun altro. Sarebbe un modo di raccontare le cose un po’ arido, che evoca una specie di gerarchia. Siamo qui per dare il miglior contributo che possiamo, per dare continuità a una creazione di valore, siamo qui per dare corpo all’idea che il pensiero va oltre la fortuna».

Gioco, lavoro e termodinamica

Ora è venuto il momento di salutarci, dopo due ore che sono – è proprio il caso di dirlo – volate. Tra tutti i confini che Mavel ha spostato in questi oltre vent’anni, quello tra gioco e impresa è quello che ci è piaciuto esplorare. Ci sembra bello concludere con le parole del filosofo Alberto Peretti, che nel suo saggio “Il dubbio di Amleto. Il gioco come modo di pensare, sentire, agire” descrive proprio il rapporto tra gioco e lavoro usando come metafora un principio della termodinamica. Ci poteva essere qualcosa di più azzeccato per Mavel?

«Seguimi ora: tentiamo una velocissima incursione nel mondo della fisica. Ti propongo di pensare che il gioco porta al superamento del secondo principio della termodinamica, al superamento dell’entropia all’interno del sistema lavorativo. Il secondo principio della termodinamica, applicato all’energia, è piuttosto noto: la trasformazione di un quantitativo di lavoro in calore è irreversibile. Non possiamo cioè ritrasformare il calore ottenuto nel quantitativo di lavoro precedentemente utilizzato. Ciò avviene a causa del fenomeno dell’entropia, una sorta di dispersione, di degradazione dell’energia, costitutiva dei sistemi viventi. Proviamo ad applicare questo principio al sistema del lavoro umano. Possiamo allora leggere il fenomeno dell’entropia professionale come la degradazione che subisce l’energia motivazionale investita in una certa attività. La voglia di fare finisce cioè per disperdersi e perdersi nell’ambiente di lavoro nel quale avviene il processo di trasformazione in fare della motivazione a fare. L’attività lavorativa degrada, entropizza la motivazione. Impedisce la riconversione del fare nell’energia motivazionale investita. L’attività priva della dimensione di gioco intacca il sé di chi agisce, creando uno stato di entropia psichica che ne diminuisce le potenzialità. Se spesa all’interno della cornice gioco, invece, l’energia psichica investita nel lavoro si trasforma interamente, senza dispersioni, in attività giocata e soprattutto diventa interamente reversibile. L’attività lavorativa vissuta con atteggiamento di gioco diventa momento catalizzatore per esperienze di lavoro empowering (cioè occasione di ricerca di senso e significato, spazio per espressioni creative, momento per appartenere e appartenersi) che a loro volta si trasformano in potenti energie motivazionali. Il gioco, insomma, è un’energia che alimenta e si autoalimenta».