officine ico salone dei 2000
Nuova vita negli spazi delle ICO

Alberto Redolfi intervista Cino Zucchi, l’architetto a cui Icona ha assegnato l’incarico di progettare la riforma degli storici edifici industriali olivettiani di Ivrea.

Una vita piena di attività diverse

Cino, sei stato definito più volte un architetto “pop”. Sei un dissennato collezionista di oggetti particolari e un appassionato di musica e cinema. Ti vuoi descrivere con parole tue a beneficio dei nostri lettori?

La parola pop è un neologismo che in realtà si fonda su di un problema più antico: quello del rapporto dialettico che intercorre nelle arti e nell’architettura fra “cultura alta” e “cultura popolare” o, più modernamente, tra quelli che Umberto Eco in Apocalittici e Integrati — insieme al famoso testo di Walter Benjamin su L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica, che rimane il commento insuperato sul tema — chiama “High-brow” e “Low-brow”. Tanti anni fa ho scritto un libro sui cortili milanesi in epoca spagnola, e nelle mie ricerche ho tracciato la lunga genealogia dell’arco su colonne binate: esso nasce nella cerchia di artisti intorno a Raffaello, dopo il sacco di Roma del 1527 viene portato al nord da Giulio Romano dove si diffonde in maniera quasi virale e cent’anni dopo lo si ritrova nei cortili di molti palazzi ed edifici pubblici milanesi e torinesi. Un motivo nato come neologismo colto diventa nel tempo un lessico condiviso e quasi popolare. Questo succede spesso in tutte le arti ed è un fenomeno che mi interessa molto, come peraltro il suo esatto contrario: il pop americano che preleva figure dai fumetti, dalla pubblicità o dai rotocalchi per farli diventare “arte da galleria”, e un giovane Claes Oldenburg che nella sua Ray Gun Wing esplora i mille gradi che portano dalla figura all’astrazione, dagli oggetti trovati per strada alla fruizione artistica. Rispetto a quelle che potremmo chiamare le “epoche classiche”, oggi non siamo più accomunati da una cultura unitaria, ma ci dividiamo in gruppi e sottogruppi con pensieri, gusti, abitudini, modi di vestire completamente diversi tra loro: vere sottoculture che convivono negli stessi ambienti urbani e che li plasmano ogni giorno per adattarli alle proprie esigenze. A differenza di altre forme d’arte, un architetto non sceglie il proprio pubblico. E molti dilemmi della città di oggi — si pensi alle polemiche sui giornali circa i nuovi grattacieli di Milano o Torino — ci mostrano quanto le persone esprimano giudizi soggettivi senza più veramente un terreno comune su cui fondarli, o senza un vero canone estetico condiviso. L’architettura, essendo piantata per terra e quindi condivisa da molti pubblici diversi, certamente soffre di questo stato di cose. Mi domando quindi se si possano progettare architetture al contempo popolari e colte, nelle quali tuttavia la seconda dimensione non si opponga alla prima ma si limiti a suggerire livelli di lettura sempre più alti a chi è in grado di recepirli. Potrei quindi definire il mio lavoro di ricerca l’equivalente architettonico di un pop sofisticato. La musica che ascolto in cuffia mentre lavoro al tavolo — in genere indie music contemporanea mischiata al rock degli anni Sessante e Settanta — è piuttosto orecchiabile ma non banale, e rivela le proprie finezze solo al secondo o terzo ascolto. Così accade nell’architettura del passato e dovrebbe accadere nell’architettura recente: in ogni arte ci sono vari livelli di fruizione, ma il secondo o il terzo livello non debbono mai uccidere il primo. Dal punto di vista dell’educazione scolastica, le vicende della vita hanno fatto di me uno strano cocktail di scientismo americano e filologia umanistica europea, poli dai più visti come opposti ma accomunati dalla mia attitudine fortemente empirica. Sono passato dallo studio di programmi di intelligenza artificiale come il LISP all’immersione nei trattati architettonici del Cinquecento italiano. Questa oscillazione da un estremo all’altro mi ha portato a non fidarmi veramente né dei diagrammi matematici né della pura erudizione storica: i miei studi mi hanno portato alla Docta Ignorantia propugnata da Niccolò Cusano e permettono di difendermi dalle persone che usano la scienza o la cultura come un’arma per dominare o mettere in soggezione.

Cino Zucchi alle ICO

Cino Zucchi durante la sua visita ale ICO — ph. Davide Aichino

Ricordo qualche anno fa di aver letto in una tua intervista un’affermazione che condivido, qualcosa tipo: “la vita è disordinata e l’architettura deve saperla tollerare e interpretare”…

Il mestiere di architetto miscela continuamente impegno sociale, nozioni di natura tecnica e di natura artistica. Il processo che produce prima un progetto e poi la sua traduzione concreta si è via via specializzato. Anche se non ho mai creduto a un architetto-demiurgo, credo che oggi si debba resistere alla frammentazione di un progetto in tante, forse troppe sotto-discipline. Il lavoro che facciamo accende e spegne continuamente diverse attitudini; siamo negoziatori, registi, bricoleurs, costruttori, artisti, comunicatori, affrontiamo simultaneamente piani diversi della realtà e giudizi spesso eterogenei: a un soprintendente si deve rispondere con un certo linguaggio, a un vigile del fuoco con un altro, a un economo con un altro ancora. Il nostro prodotto quindi è chiamato a trovare la sintesi tra contraddizioni talvolta fortissime. È la cristallizzazione di una situazione dinamica in una forma finita. Deve tuttavia saper mantenere la sua struttura e al contempo adattarsi alle vite, ai bisogni e alle aspirazioni che scorrono e scorreranno nei suoi spazi, e che potranno manifestare esigenze impreviste al momento del suo concepimento. Per far ciò, l’architetto deve saper conferire al progetto e ai suoi spazi una certa generosità, guardando alle soluzioni più generali piuttosto che alla rispondenza troppo minuta alle esigenze del momento.

Cosa conoscevi di Ivrea e della sua storia industriale prima di questo prestigioso incarico?

Nella storia dell’industria e dell’architettura Adriano Olivetti è una figura di grande spicco e citare le sue frasi più celebri ai convegni è diventata una pratica ormai comune, con il rischio di perdere l’articolazione e la complessità del suo pensiero. In parallelo alla sua ahimè breve ma intensa biografia e alla crescita talvolta rapidissima dell’impresa da lui guidata, le architetture olivettiane seguono un’evoluzione tecnica e formale che parte dalla fabbrica originaria in mattoni rossi attraverso tutte le successive addizioni di Luigi Figini e Gino Pollini lungo via Jervis, in un “glissando” tra tettonica ancora classica, finestre a nastro alternate a fasce orizzontali di intonaco, fino al lunghissimo “pan de verre” in profili metallici dell’addizione più recente. In maniera analoga, l’intero sito Unesco appare come una sezione della cultura architettonica italiana dell’ultimo secolo: gli ultimi edifici di Figini e Pollini così come la mensa di Ignazio Gardella esprimono chiaramente la particolare revisione critica degli assiomi del cosiddetto “Movimento moderno” avvenuta in Italia nel secondo dopoguerra. Quello che in quel momento poteva essere visto dall’ortodossia funzionalista quasi come un tradimento — Reyner Banham aveva perfino scritto di una supposta “Italian retreat from modern architecture” — è considerato oggi nel mondo come il contributo più originale della cultura architettonica italiana, quella che ha generato a Milano la Torre Velasca e il grattacielo Pirelli. Certamente esistono degli esempi del nord Europa a cui Figini e Pollini hanno fatto riferimento: basti pensare a come la vetrata dei primi due nuclei assomigli a quella della fabbrica Van Nelle a Rotterdam e al Bauhaus di Dessau. In quel momento gli edifici industriali erano da molti architetti dell’avanguardia visti non solo come dispositivi funzionali, ma come simboli di una nuova moralità delle forme tecniche del lavoro contro il decorativismo dell’architettura tardo-eclettica. Lo stesso Adriano Olivetti ha dato molta importanza a questa dimensione ideale: nel suo pensiero, il luogo della produzione non deve essere animato dal semplice “taylorismo” (nel quale l’uomo nella catena di montaggio diventa una protesi della macchina) ma un ambiente attraversato da una grande tensione umanistica, che nel suo pensiero miscelava in maniera del tutto peculiare la fiducia nella tecnica e nella ricerca con un personale socialismo di stampo utopico e, a tratti, mistico. Lo stesso concetto di Comunità formulato da Adriano Olivetti mescola elementi laici e religiosi. Egli aveva ben compreso che il suo ambizioso ideale di un “lavoro a misura dell’uomo” aveva bisogno di artisti, un po’ come un papa si poteva servire di un Bernini o un Borromini. La vicenda olivettiana vede un intreccio molto forte tra progetto politico e industriale e le arti, in particolare l’architettura, la grafica e il design. Non so esattamente se Olivetti scegliesse gli architetti in prima persona, ma sta di fatto che a Ivrea e negli altri luoghi della sua impresa hanno lavorato i più grandi architetti della sua epoca. Un elemento di estremo interesse dell’Olivetti di Ivrea è il suo carattere diffuso, integrato sia con la città preesistente che con la natura circostante. Molti complessi industriali del secolo scorso erano organizzati nella forma di un grande recinto impenetrabile. C’è una canzone di Enzo Jannacci che restituisce benissimo questa impressione, Vincenzina e la fabbrica, in cui un uomo lascia una ragazza sulla soglia di un grande edificio industriale, salutandola quasi come un militare che entra in caserma o parte per il fronte. Il modello comunitario di Olivetti ha invece realizzato un brano di città produttiva con tutti i servizi educativi, assistenziali, sportivi e ricreativi, includendo persino in essa il vecchio convento: la matrice produttiva è il catalizzatore della vita comune, ma sa diluirsi nella dimensione più generale della vita delle persone che raccoglie. Per questo il nucleo olivettiano va a mio giudizio osservato su di uno sfondo ben più vasto, non solo quello della città di Ivrea ma anche e soprattutto quello del Canavese. Molte industrie italiane del secolo scorso vanno viste nella loro dimensione complementare a quella dell’evoluzione e della crisi dell’agricoltura. Esse dalle campagne hanno preso manodopera e sostituito l’organizzazione territoriale di campi, rogge e cascine, talvolta con lo stesso paternalismo con cui un signore in villa accudiva, pur sfruttandoli, i propri fattori. Questa sorta di contaminazione fra modello agricolo e modello industriale è quello che in Italia ha radicato la fabbrica in un contesto territoriale più di quanto sia capitato in America, dove queste due dimensioni sono rimaste più autonome. È come se le fabbriche italiane si fossero appoggiate sul territorio prendendo da esso alcune radici profonde, in una cultura d’impresa che assorbiva in parte anche vecchi saperi. Per cui, pur in forme del tutto particolari, più che vedere Ivrea come città la vedo come un territorio: un’intera comunità che viveva in maniera diretta o indiretta insieme alla fabbrica.

Anche alla luce delle tue esperienze internazionali, qual è la tua percezione delle condizioni attuali della città e del suo possibile futuro?

In questo momento, come è necessariamente accaduto in un’intera generazione di città industriali più grandi come Detroit o Liverpool, essa deve gradualmente abbandonare la propria “nostalgia della perdita”, ovviamente della realtà economica e sociale generata dall’Olivetti dei propri tempi migliori. Elaborare il lutto in senso quasi freudiano — in Totem e tabù Freud parla della trasfigurazione del grande padre da parte dei figli in una figura ideale quanto astratta — e aprirsi a un modello più policentrico: tenere vivo lo spirito innovativo e la progettualità che Olivetti aveva saputo infondere in tutta la città, ma svilupparli in più componenti diverse. Mentre la progettualità e l’innovazione industriale di un tempo aveva a che fare con i “grandi capitani”, con la politica e con l’intero paese, essa ha oggi una natura più articolata e policentrica. Si pensi al tema dei distretti di cui tanto si parla: in essi c’è meno la presenza una figura carismatica, ci sono invece tanti saperi che continuano a dialogare tra loro in maniera incrociata, comprendendo le virtù di un gioco a somma positiva tra soggetti diversi. Più che dalla leadership di una sola persona, essi sono animati da una sorta di campo magnetico. Oggi la leadership esiste ancora, ma ha forme diverse: se essa diventa puramente individuale perde qualità, non trova più una direzione; il tema di oggi è come trovare e gestire una direzione comune pur accettando la pluralità dei saperi e la natura complessa della competizione nazionale e internazionale. Lo stesso luogo della Olivetti deve forse trasfigurarsi; per ospitare questa realtà più multiforme e pluralista e raccogliere sfide globali sempre più difficili gli stessi spazi della ICO devono forse sapersi trasformare in qualcosa dal carattere più articolato seppur fondato sulle matrici che li hanno generati.

Cino Zucchi nel suo studio milanese discute con Andrea Ardissone (Icona Srl) — ph. Davide Aichino

Il tuo modo di lavorare rifugge dalla ripetizione di una “griffe architettonica” (come certe archistar fanno ormai da decenni), ma cerca ogni volta di concepire il progetto di architettura con un carattere appropriato al luogo e al tema dato.

Luigi Pareyson, filosofo piemontese, ha dato una definizione del processo artistico in cui mi ritrovo molto, qualcosa come “l’arte non ha leggi né procedure garantite, ma le cerca faticosamente nel suo procedere per tentativi, ed è proprio la sua riuscita finale che ne diventa retroattivamente la legge costitutiva”. Penso che Pareyson abbia veramente capito come funziona un artista, perché non c’è una vera normatività dell’arte, nonostante essa inglobi nel suo processo molti saperi tecnici diversi. Detto questo, io in fondo divido gli artisti in due grandi famiglie ideali. Prendiamo ad esempio il cinema: ci sono attori che fanno sempre lo stesso personaggio, dove la sceneggiatura deve venire scritta su misura per loro, e attori in grado di cambiare sempre, come Robert De Niro che per girare Toro Scatenato è ingrassato apposta di venti chili, e che ne il Promontorio della Paura sa impersonare a perfezione una mente criminale. Stanley Kubrick ha girato 2011: Odissea nello spazio, ma nessuno può dire che egli sia un regista di fantascienza: da Lolita a Shining, da Arancia Meccanica a Barry Lyndon, egli sa sempre inventare diverse tecniche di ripresa in rapporto al carattere del soggetto senza perdere la propria sensibilità. Lo stesso avviene in tutte le forme d’arte: alcuni artisti lavorano per variazioni e approfondimenti successivi su di una ricerca e su un proprio linguaggio intenzionalmente limitato, altri cercano di volta in volta le parole e le forme giuste in rapporto al carattere desiderato. Il White Album di Beatles è un capolavoro di varietà musicale: ci sono canzoni rockabilly, un pezzo d’avanguardia come Revolution 9, ballate acustiche, chitarre elettriche distorte. Franco Albini in un paio d’anni disegna progetti tanto diversi quanto il Rifugio Pirovano in val d’Aosta, il Tesoro di San Lorenzo a Genova e gli uffici SNAM a San Donato Milanese. Anche se credo che la prima categoria di artisti possa fare cose altrettanto grandi, mi piace pensare di fare parte della seconda. Non voglio chiamarlo “eclettismo”, anche per i connotati negativi che questa parola ha assunto nel tempo: è piuttosto una disponibilità, un impegno a dialogare con il carattere specifico di un luogo e di un programma funzionale. L’obiettivo è quello di trovare per ogni progetto, ogni occasione, non solo le giuste modalità di intervento e i saperi da attivare, ma anche un carattere adeguato: un lavoro che qualcuno potrebbe definire di ermeneutica, un commento e un’interpretazione di un contesto concreto che oggi — pur conservando una struttura forte, un pensiero ancora riconoscibile — rivela una necessità di cambiamento per servire la nuova vita che scorrerà al suo interno. Questo approccio può valere anche per una possibile conservazione e riforma delle Officine ICO di Ivrea. Nonostante alcune loro parti siano testimonianze uniche dell’architettura industriale del secolo scorso, non possiamo pensare di congelare tutto in modo nostalgico, né sarebbe stato questo lo spirito che animava Olivetti nel suo pensiero a volte utopico. Se rendessimo ogni cosa del passato un monumento, se considerassimo ogni sua eredità fisica un documento intoccabile, nelle città italiane — uno dei luoghi più stratificati del mondo — non ci sarebbe più posto per le nostre vite. Ivrea, come molte altre città, ha bisogno di vivere nel presente sulla base del suo irriproducibile, e per questo così importante, passato. Il riconoscimento di Ivrea a patrimonio dell’umanità rappresenta un caso unico in Italia. Finalmente un premio per gli architetti del Novecento italiano di cui tu sei un grande estimatore.

Nella tua città, Milano, porti spesso gli studenti in giro con gli scooter per mostrare loro le architetture di Gardella, Figini e Pollini, Fiocchi. A Ivrea queste favolose architetture sono tutte raggruppate in pochi km che si percorrono a piedi: che effetto ti fa questo potenziale in cui sei stato chiamato a lavorare?

Mi viene in mente il bel libro di Dolores Hayden, Seven American Utopias: The Architecture of Communitarian Socialism 1790–1975, in cui si parla del rapporto complesso tra la costruzione di un progetto sociale e quella dello spazio fisico che lo ospiterà: in Europa abbiamo New Lanark o i tentativi — come quello realizzato da Jean-Baptiste André Godin a Guise — di dare forma concreta al “Falansterio” immaginato dal filosofo francese Charles Fourier. Dobbiamo riconoscere che realtà artistica e realtà sociale mostrano molti tratti comuni. L’una e l’altra hanno un carattere eminentemente formale. Tra spazio e società (rubo il titolo alla rivista di Giancarlo de Carlo) esiste non un rapporto meccanico — tutte le volte che si è voluto fare dell’ingegneria sociale attraverso l’architettura si sono combinati disastri — ma certamente una notevole e reciproca attrazione: come in presenza di un ideale politico o sociale gli architetti lavorano meglio, così spesso un ideale ha bisogno di un architetto per rappresentarsi in una forma e in un’organizzazione urbana. Il complesso di Ivrea vincolato dall’Unesco non ha il carattere unitario delle grandi pianificazioni top-down, ma è piuttosto un palinsesto dove un pensiero guida è capace di evolversi e modificarsi in rapporto alla dinamica delle cose e alle condizioni concrete del suo diventare realtà. La Olivetti è cresciuta velocemente e si ha l’impressione che le addizioni successive fossero concepite sopra un treno in corsa, con un forte elemento di intuito e una capacità di cogliere le occasioni e dialogare con molti soggetti preposti alla loro realizzazione. Quello che mi interessa sottolineare dell’Olivetti è la capacità di tenere insieme parti realizzate in tempi e da autori diversi, eterogenee nei linguaggi ma tenute insieme da un concetto di comunità. Un progetto forte che emana una sensazione di varietà, di pluralità di opinioni, eppure riconoscibile per la condivisione di un modello ideale. E poi c’è il fatto che tutto questo si è intrecciato con la forma di una città vera: un po’ alla maniera delle università italiane — come quelle di Bologna o Pavia, che non sono mai dei campus autonomi ma si trovano all’interno di tessuti urbani — la Olivetti è cresciuta in connessione con il nucleo di Ivrea e ne fa parte tutt’ora. Questo carattere di innesto la distingue dai grandi complessi industriali americani. L’America è piena di grandi architetture industriali con i loro uffici, però spesso esse sono collocate in mezzo a un territorio esteso, sembrano cittadelle autonome che non a caso hanno meritato il nome di company towns.

Nei tuoi progetti c’è sempre uno studio meticoloso delle facciate, una continua ricerca espressiva e tecnologica; negli interventi non manca mai l’attenzione allo spazio aperto, cortili, percorsi e aree pedonali adatte alla socializzazione. Come pensi di affrontare il rigore delle Officine ICO, il suo geometrico scheletro strutturale, il contesto che le contorna?

All’interno di un approccio che pone in primo piano la conservazione del manufatto architettonico nelle sue parti qualificanti, una nuova vita deve scorrere negli spazi delle ICO, una vita piena di attività diverse che insieme sappiano cogliere e ritrasmettere i valori umanistici di Adriano. Nel fare questo, il complesso delle Officine ICO — abbandonato dalle attività produttive che ne hanno prodotto le forme — può aprirsi maggiormente alla città e al territorio, usando la luce e il respiro dei suoi spazi per ospitare nuove funzioni. Nel mondo della produzione, lo spazio aperto è spesso solo spazio di servizio. I fiumi intorno ai quali sono cresciute molte città storiche furono per secoli considerati solo infrastrutture di trasporto: è solo l’Ottocento che scopre il lungo lago o il lungo fiume come luoghi di piacevolezza e fruizione paesaggistica. Allo stesso modo, nella fabbrica di Ivrea abbiamo il “Salone dei 2000” — un elemento volutamente assembleare — e grandi spazi a shed che erano funzionali alla produzione: essi hanno tuttavia una tale qualità ambientale e una tale generosità che oggi possono diventare qualcosa per cui non erano stati disegnati. Un progetto sensato per le ICO deve sia descrivere e interpretare con attenzione la loro identità passata, sia saggiare quanti elementi nati per rispondere a una funzione molto specifica siano disponibili ad accogliere qualcos’altro. A Milano il collegio dei Gesuiti è diventato la Pinacoteca di Brera, e l’Ospedale Maggiore è diventato Università: i loro cortili porticati, proprio in virtù della loro chiarezza e identità spaziale, si prestano a diventare nel tempo cose del tutto diverse, pur collegate da un ruolo comunitario. La buona architettura dura più a lungo del programma che l’ha generata; questa semplice constatazione è strettamente collegata alle idee di riuso e interpretazione. Penso spesso a come il grande architetto sloveno Joze Plečnik abbia restaurato in maniera completa il castello di Praga inserendo in esso molti cammei e interventi moderni: una piccola scala, una grande vasca in pietra monolitica, un palo, segni del linguaggio molto personale dell’autore e al contempo sempre capaci di interpretare e valorizzare la sequenza degli spazi esistenti. In molti esempi come questo il problema non è tanto quello della novità formale delle aggiunte, ma è piuttosto l’insieme dei legami fisici e l’unione di questo con ciò che già esiste. Un lavoro, insomma, di chiosatura, un po’ come succede in musica con le cosiddette cover: la linea melodica è identica all’originale, ma attraverso un diverso arrangiamento, o il timbro diverso della voce di un cantante, cambia il risultato. Come diceva Carlo Mollino, “il significato non sta nella parola ma nell’accento”. Nel tuo progetto di riforma si fa riferimento al concetto di “mixité funzionale”.

Cino Zucchi nel “Salone dei 2000” di fronte alla statua di Camillo Olivetti — ph. Davide Aichino

Cino Zucchi nel “Salone dei 2000” di fronte alla statua di Camillo Olivetti — ph. Davide Aichino

Questa rivista nasce con l’obbiettivo di rendersi utile al processo di riforma dell’area, provando a portare stimoli culturali, a raccontare il lavoro di chi si è insediato e di chi si insedierà, a facilitare percorsi di conoscenza fra l’interno e l’esterno, fra il passato e il presente. Dall’alto della tua esperienza, che cosa non può mancare in uno strumento come questo? Hai qualche consiglio per il suo futuro?

Ci sono due tipi di house-organ: le riviste più vicine al bollettino e quelle che sono diventate anche riviste di grandissima cultura. Queste ultime, pur sempre patrocinate, si aprivano a livelli alti di contributo, di dibattito, che su determinati temi accendevano riflessioni che prima non erano così presenti. Siccome l’industria lavora sempre sull’innovazione e su nuove idee, possiamo dire che ci siano sempre scambi fecondi tra impresa e cultura. Basti pensare al rapporto strano tra Benetton e il fotografo Oliviero Toscani, che con le sue campagne spesso provocatorie ha inserito nella comunicazione un elemento di impegno sociale fino a modificare forse la strategia industriale dell’azienda. Il dialogo tra industriale e artista non è certo un fatto recente; oggi tuttavia sono mutate le condizioni, siamo all’interno di un bombardamento mediatico che rimescola le carte e spesso genera un rumore di fondo che impedisce il vero scambio. Quando è uscito A sangue freddo di Truman Capote, si è parlato per anni del suo neorealismo un po’ crudo: se oggi uscisse un’opera simile avrebbe ancora lo stesso effetto gravitazionale? Il problema di oggi è il livello di attenzione così basso che costringe i contenuti a prendere forme nuove. All’aumentare del rumore di fondo devi diventare spettacolare, oppure breve, insomma adottare il modello mentale del tempo in cui viviamo. Un po’ come accade nell’intrattenimento colto: si può fare un programma televisivo intelligente, per un pubblico ampio, senza ricorrere a forme populistiche. Oggi il tema è come essere profondi ma anche efficaci, senza soccombere sotto il peso delle banalizzazioni giornalistiche. Tornando all’operazione di cui stiamo parlando, non dobbiamo perdere di vista l’obbiettivo di far tornare al dialogo cinque, sei, sette, dieci soggetti che gravitano attorno al mondo Olivetti. Tutte realtà che si occupano dello stesso oggetto, ma non hanno canali così diretti di dialogo. La fatica sarà quella di trovare un terreno comune dove ognuno può esprimere il suo punto di vista e fare in modo che, mettendoli insieme, si formino delle interferenze significative, delle sovrapposizioni come quelle tra i cerchi di un diagramma di Venn. Una rivista dovrebbe essere capace di questo, lasciare una certa autonomia a tutti i soggetti coinvolti ma avere un centro comune. Oggi, oltre alla competizione con le altre forme mediatiche — la rivista ha qualcosa di retrò, come i dischi in vinile o gli orologi vintage — dobbiamo aggiungere la consapevolezza che tutto ciò che diciamo è stato già detto mille altre volte. Cantava Leonard Cohen in una sua vecchia canzone “Many loved before us / I know that we are not new. / In city and in forest they smiled like me and you”. Non penso che oggi si possa pensare a qualcosa di completamente diverso. A volte anche delle forme un po’ banali e circoscritte possono servire ad ancorare il pensiero divagante. A noi serve precisare e dare limitazioni al fluire del discorso: il numero di battute, il colore, la grafica… trovo che a volte una regola arbitraria e formale, una gabbia, un format, servono ad ancorare la varietà del pensiero e a renderlo memorabile ai nostri occhi. Nel suo progetto Worlds in a small room, il fotografo Irving Penn costringeva le persone che ritraeva a posare compresse in un angolo acuto del suo studio: era proprio quella costrizione a tirare fuori la loro personalità, a farla manifestare pubblicamente. Non voglio dire che la grafica sia tutto, ma credo che creare all’interno del complesso una narrazione e dare alla varietà dei contributi degli elementi molto fissi, arbitrariamente costringenti, potrebbe generare una forma di unità e leggibilità. In fondo il bianco e nero in fotografia è uno strumento apparentemente limitante, ma che in realtà mette a fuoco le potenzialità e le interpretazioni della realtà da parte dello strumento di ripresa e stampa. Diceva Paul Valéry che “è poeta colui al quale le difficoltà peculiari alla propria arte danno idee, e non è poeta colui al quale le tolgono”. In questo senso, saranno gli stessi spazi delle ICO, se sapremo osservarli con intelligenza, a darci delle bellissime idee.


Le immagini a corredo di questo articolo sono di Davide Aichino, che per La Rapidissima ha firmato anche il reportage Dedali oscuri, che potete consultare su Medium.